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L'editoriale del direttore
Gli indizi per un Draghi d'Europa
Il rapporto che von der Leyen gli chiese è diventato il termometro dell’“inazione” dell’Ue. Perché oggi l’ex premier è un’alternativa a Ursula. Grazie a un asse con Merz. Piste per il 2026 (con notizia)
Suggerimento o rimprovero? Disegno o coincidenze? Complemento o alternativa? Non succede, perché non succede, perché lo schema è difficile, perché gli ingranaggi sono complicati. Ma se dovesse succedere, se quella piccola finestra che oggi appare molto remota dovesse diventare una possibilità concreta, vale la pena non farsi trovare impreparati e iniziare a leggere con uno sguardo diverso dal passato i piccoli segnali lasciati sul terreno da gioco. Il protagonista di questa storia si chiama Mario Draghi, probabilmente lo conoscete.
Mario Draghi ha settantotto anni, un curriculum da far spavento e da tre anni, dal giorno in cui cioè ha fatto i conti con l’evaporazione di una maggioranza per il suo governo (era il luglio del 2022), l’ex presidente del Consiglio ed ex governatore della Bce ha scelto di dedicarsi con forza a una delle sue grandi passioni, anche se non sappiamo se questa venga prima o dopo l’amore per il golf: l’Europa. Draghi è tornato a occuparsi d’Europa nel settembre del 2023, quando Ursula von der Leyen, anche per zittire le voci maliziose secondo le quali l’ex capo del governo italiano avrebbe potuto essere un competitor per la presidenza della Commissione, affidò proprio all’ex presidente del Consiglio un importante piano sulla competitività dell’Europa. Il rapporto Draghi è stato trasformato da von der Leyen nel simbolo di un’Europa possibile. Ma nel giro di poco tempo quel rapporto, da punto di forza della Commissione, è diventato il suo opposto. E la lentezza con cui la presidente della Commissione ha scelto di implementare le indicazioni di Draghi si è lentamente trasformata in un termometro delle difficoltà di Ursula von der Leyen: vorrei, ma non posso. O, se volete: vorrei, ma non riesco. Da traccia possibile, dunque, il rapporto Draghi è diventato un monito permanente. E il risultato è che il rapporto Draghi, all’improvviso, si è trasformato nell’immagine di un’Europa alternativa a quella incarnata da Ursula. Il rapporto Draghi, lo sapete, dice che l’Europa rischia il declino a causa della crescita bassa, dell’energia troppo cara, degli eccessivi ostacoli interni che impediscono competitività e corsa verso l’innovazione.
Per dare una svolta all’Europa, occorre un salto di qualità. Servono più investimenti comuni, più regole semplici e rapide, più passi verso un mercato unico integrato, più investimenti sulla sicurezza e sulla difesa, per rendere l’Europa non solo più forte ma anche più autonoma e più indipendente. Per capire il momento in cui il piano Draghi, da traccia da seguire, è diventato un monito – o, se volete, un atto d’accusa – bisogna segnare sul calendario la data del 10 settembre del 2025. In quel giorno, il Parlamento europeo presenta una relazione con cui si dà conto dell’implementazione del piano Draghi. Il numero colpisce: l’undici per cento. Praticamente nulla. L’inazione, o quantomeno l’azione lenta, zoppicante, incerta della presidenza von der Leyen – che nel frattempo si è ritrovata più volte al centro dei malumori della sua stessa coalizione – da elemento teorico e vago è diventata, grazie al piano Draghi, un elemento misurabile.
Il ragionamento è semplice: se il piano Draghi indica all’Europa l’unica direzione possibile da seguire per non essere schiacciata tra i giganti del mondo, rinunciare a seguire quell’agenda significa non lavorare per il bene dell’Europa. Il caso vuole che pochi giorni dopo la certificazione dell’inazione di Ursula von der Leyen, l’ex presidente del Consiglio abbia intensificato i suoi interventi pubblici. Il 16 settembre, a Bruxelles, Draghi ha detto che “il nostro modello di crescita sta svanendo. Le vulnerabilità aumentano… e ci è stato ricordato, dolorosamente che l’inazione minaccia non solo la nostra competitività, ma la nostra stessa sovranità”. E ancora: “Troppo spesso si cercano scuse per questa lentezza. Si dice semplicemente che è così che è costruita l’Unione europea. A volte l’inerzia viene addirittura presentata come rispetto dello stato di diritto”. Il 24 ottobre, a Oviedo, Draghi si è chiesto in modo retorico: “Ci viene spesso detto che l’Europa è forgiata dalle crisi: ma quanto deve essere acuta una crisi perché i nostri leader si uniscano e trovino la volontà politica di agire?”. Il 4 novembre, a Madrid, ha detto che “l’Unione si trova in una situazione più complicata rispetto a un anno fa e deve investire 1,3 trilioni di euro e realizzare le riforme essenziali per evitare di rimanere indietro. Dobbiamo muoverci più velocemente. Il tempo stringe”. Il primo dicembre, a Milano, Draghi è tornato a dire che per “riportare l’Europa sulla strada dell’innovazione” è tempo di “cambiare questa cultura della precauzione”.
Quello che è sulla scena è dunque chiaro: l’agenda Draghi, da elemento di forza della Commissione von der Leyen, è diventata lo specchio di tutto quello che Ursula non riesce a fare. E, di conseguenza, l’agenda Draghi, in questo quadro, è diventata alternativa all’agenda von der Leyen. Accanto a questo elemento di riflessione vi è però un tema che riguarda un’altra serie di puntini che si possono unire. E l’insieme di quei puntini ci dice che più la leadership di Ursula si indebolirà, più vi saranno possibilità che Draghi possa diventare un’alternativa a Ursula non solo sul piano delle agende ma anche su quello della leadership.
Da settimane, nelle principali cancellerie europee, l’ipotesi – clamorosa – di esplorare alternative all’attuale presidente della Commissione europea è diventata qualcosa in più di una semplice evocazione sterile. E Draghi è diventato il sogno proibito per un dopo Ursula, da concretizzarsi non alla fine del mandato di von der Leyen, non solo di Emmanuel Macron ma anche del cancelliere tedesco Friedrich Merz. Il rapporto con la Germania, in quest’ottica, è fondamentale per l’ex presidente del Consiglio italiano. In Germania, ai tempi della Banca centrale europea, la leadership di Draghi è stata sempre sofferta e gli scontri con la Banca centrale tedesca, la Bundesbank, erano all’ordine del giorno: Draghi veniva accusato di essere troppo generoso con i paesi mediterranei, la Banca centrale tedesca chiedeva più rigore.
Con il tempo gli angoli si sono smussati, i rapporti sono cambiati, e nel corso degli ultimi mesi l’ex presidente del Consiglio ha costruito un rapporto che alcuni amici di Draghi definiscono “intenso” con il cancelliere tedesco e anche con il partito di cui è espressione: la Cdu. La Cdu è il cuore pulsante del Ppe. Il Ppe esprime sia Ursula von der Leyen sia il suo avversario più arcigno, Manfred Weber. Ma la Cdu tedesca, che ha archiviato – per il momento – la linea del rigore puro per sposare la linea della solidarietà in nome della competitività dell’Europa, da mesi discute della possibilità di dare una scossa all’Europa, accusando la propria presidente di inazione. Von der Leyen è sotto processo per i rallentamenti concessi sul Mercosur, per gli accordi al ribasso accettati sui dazi, per aver proposto un prestito di riparazione per l’Ucraina utilizzando gli asset russi senza aver coinvolto preliminarmente il Belgio, per aver spostato il baricentro delle politiche della Commissione troppo a destra creando ripetute maggioranze variabili con le estreme rimaste fuori dal perimetro della maggioranza che l’ha eletta. Il processo a Ursula è in corso da tempo. Un cambio in corsa è difficile ed è altrettanto difficile immaginare che possa essere suggerito all’attuale presidente della Repubblica della Germania, Frank-Walter Steinmeier, di dimettersi qualche mese in anticipo (il suo mandato scade il 18 marzo 2027) per permettere a von der Leyen di avere un’exit strategy dalla Commissione europea. Immaginare incidenti di percorso, per Ursula, politica navigata, non è scontato. Ma se mai dovessero esserci, la novità è che la candidatura di Draghi, per quel ruolo, avrebbe due sponsor pesanti, oltre naturalmente a Giorgia Meloni: il presidente francese e il cancelliere tedesco. E chissà che il rapporto speciale tra Merz e Draghi, proprio all’inizio del 2026, non possa prendere forma con un abbraccio pubblico organizzato in un qualche evento proprio in Germania. Non succede, ma se dovesse succedere la trama è questa. I registi sono pronti, gli incidenti chissà.