Buon contenimento, pochi gol nella partita economica del governo

Claudio Cerasa

Anche l’ultima manovra è lo specchio di una politica priva di coraggio. Crescita, produttività, demografia, innovazione, concorrenza: cinque tabù che il centrodestra è stato incapace di aggredire, nonostante la reputazione acquisita in tre anni di governo

Mancano pochi giorni e, finalmente, la manovra del governo, l’ultima manovra non elettorale, in teoria, prenderà forma, verrà votata dal Parlamento e diventerà realtà. Nei prossimi giorni, come capita regolarmente ogni anno, le opposizioni, del tutto legittimamente, faranno notare quanto il governo sia in contraddizione con se stesso non soltanto per ciò che abbiamo visto la scorsa settimana, quando un super emendamento promosso dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti (Lega) è stato sostanzialmente bocciato dal resto della Lega più vicino alla linea Borghi e Salvini. La manovra, con ogni probabilità, farà discutere per essere arrivata in Parlamento troppo tardi, senza dare al Parlamento la possibilità di discutere fino in fondo i provvedimenti, che arriveranno blindati in Aula. Ma la manovra, in verità, dovrebbe far discutere per altre ragioni. Pensare che, in tempi di Pnrr, siano le manovre a cambiare il volto del paese è ingenuo e in fondo la manovra del governo il suo compito principale lo ha svolto: prudenza, attenzione ai conti, niente spese pazze e deficit sotto controllo. Le manovre, però, di solito aiutano a capire qual è l’anima di un governo, quali sono le sue priorità, quali sono le sue esigenze, e ancora una volta l’impressione è che il governo Meloni, in economia, abbia molte qualità in fase di contenimento (d’altronde, nella sua seconda vita, Giancarlo Giorgetti fa il portiere di calcio) mentre abbia difficoltà notevoli nel saper andare all’attacco.

 

Come sostiene il nostro amico Carlo Stagnaro, il punto vero di questa manovra non è che sia senza anima. E’ che, semmai, è la politica economica del governo a essere senza coraggio, a essere tutta un vorrei ma non posso (vorrei essere più prudente sulle pensioni, ma sai com’è, non tutti sono d’accordo) e un dovrei (e forse potrei) ma non voglio (dovrei scommettere di più sull’attrattività, sulla globalizzazione, sul libero scambio, ma non ne sono convinto fino in fondo e dunque meglio prendere tempo). In questo senso, si può dire che gli elementi più tristi di questa manovra non riguardano i singoli dettagli ma riguardano i dettagli che hanno a che fare con un tema più ampio: l’incapacità assoluta della politica di provare a ragionare sulla crescita andando ad aggredire i tabù che tengono l’Italia intrappolata nelle sue catene.

 

L’Italia, anche quella meloniana, ha punti di debolezza che ignora e punti di forza che non valorizza, opportunità che non coglie e alla fine dei conti il vero difetto della stagione economica meloniana non è la presenza di un populismo eccessivo ma è l’assenza di forza, l’incapacità di saper cogliere un’occasione d’oro come quella attuale, un governo stabile, una maggioranza solida, un’opposizione debole, una credibilità internazionale alta, per provare a far viaggiare più veloce il treno dell’Italia.

 

Periodicamente, quando vi è una discussione interna al governo su una legge di Bilancio, succede che il fronte più demagogico evochi l’immagine di una “manina” per condannare eventuali scelte rigoriste. Nel caso specifico, se volessimo ribaltare il tema, potremmo individuare, con una manina, i cinque temi tabù che l’Italia di Meloni, in questi anni, si è rifiutata di affrontare, anche in questa manovra. I nostri punti di forza, semplicemente, non li vediamo. I punti di debolezza, specularmente, li ignoriamo. Cinque temi, cinque dita, cinque tabù: crescita, produttività, demografia, innovazione, concorrenza.

 

Sulla crescita, il governo Meloni ha scelto di non alzare l’asticella, ha scelto di accontentarsi di ricevere una spinta indotta dagli investimenti del Pnrr, ha scelto di non scommettere sulla creatività per immaginare delle misure finalizzate all’attrattività e il risultato è quello che abbiamo di fronte a noi: una delle crescite più basse dell’Eurozona, nonostante i miliardi del Pnrr.

 

Sulla produttività, il governo non ha avuto il coraggio di mettere a terra norme utili a spingere le imprese e i sindacati a lavorare in modo più celere sul rinnovo dei contratti, e in un paese la cui produttività negli ultimi anni è aumentata del 2,5 per cento contro il 10 per cento della Francia, il 16 della Germania, il 18 della Spagna non ci si può stupire se i salari alla fine nello stesso periodo siano aumentati appena del 4 per cento.

 

Sulla demografia, stessa storia. Il governo Meloni, a differenza dei suoi rivali, riconosce che l’Italia vive un dramma demografico, tema sul quale non si può dare torto a Elon Musk, ma ha scelto di affrontare il tema in modo impacciato, timido, senza energia. Nessuna centralità in manovra sul tema della natalità (un tempo il ministro Giorgetti aveva proposto di tassare in modo significativamente inferiore rispetto al presente le famiglie con più di due figli), investimento sull’immigrazione qualificata inferiore rispetto alle esigenze dell’Italia (decreto flussi insufficiente, pochi talenti importati, stipendi bassi) e a parte qualche bonus, qualche asilo nido, qualche servizio, nulla di strutturale e di coraggioso (nel 2024 le nascite sono scese sotto quota 370 mila).

 

Stessa storia sull’innovazione. La famosa transizione 4.0 doveva spingere investimenti e produttività. E’ diventata una giungla di crediti d’imposta, di aliquote e di rinvii. Risultato: imprese ferme, ordini congelati, incertezza, fiducia al ribasso, promesse non mantenute. Sull’innovazione, in questi anni, il governo ha trattato il dossier più come un capitolo di spesa che come una strategia, e il risultato è sotto i nostri occhi: chi potrebbe innovare non lo fa, chi dovrebbe innovare lo fa poco, chi vuole innovare cerca fortuna all’estero. Numero utile da tenere a mente: l’investimento del governo in AI (un miliardo di euro) vale quanto il rifinanziamento annuale dei bonus auto (ovvero incentivi alla rottamazione). Secondo numero utile da tenere a mente: nel 2025 usa l’AI il 16,4 per cento delle imprese italiane, contro il 20 per cento dell’Ue. Sulla concorrenza, in fondo, stessa storia. Il governo si è occupato più di tutelare le rendite che di incentivare l’innovazione e la concorrenza. Uber: ostacolata. Airbnb: tassata. Liberalizzazioni: fermate. Privatizzazioni: rinviate. E poi: concessioni balneari prorogate contro l’Europa. Farmacie intoccabili, servizi pubblici locali blindati, concessioni autostradali rinnovate senza gara, mercato dell’energia ricalendarizzato. Più protezioni che competizione, più rendite che investimenti, più passato che futuro.

 

Nel parare i colpi, il governo Meloni ha mostrato qualità. Nel creare occasioni per far crescere l’Italia, e nel creare opportunità per segnare qualche gol, il governo Meloni ha gravemente deluso. La manovra non conta in quanto tale. Conta come anima. Come riflesso. Come specchio di un’Italia che in tre anni di maggioranza di centrodestra ha ritrovato una sua credibilità, una sua attrattività, ma che quella credibilità e quella attrattività semplicemente non è stata in grado di usarla per trasformare la reputazione acquisita in un risultato concreto. Meno gol subiti, pochi gol fatti. Di solito, con questi numeri, le squadre tanto lontano non vanno.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.