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l'intervista

“Elkann venderà pure la Juve”. Parla Luciano Moggi

Salvatore Merlo

“Lui ha messo i soldi, ma non la competenza. Io? Tornerei subito, per la Juventus sono pronto a tutto”. L'ex dirigente commenta la gestione di Andrea Agnelli: "Può aver fatto errori, ma nove scudetti consecutivi non sono un dettaglio"

“Venderà anche la Juventus, lo dicono tutti”. Non solo Repubblica e la Stampa. Non solo la Iveco. Luciano Moggi non conferma e non smentisce. Fa di peggio, l’uomo che con Bettega e Giraudo, ai tempi di Gianni e Umberto Agnelli vinse tutto: prende sul serio l’ipotesi. Ed è lì che la domanda cambia segno. Che John Elkann molli anche la Juventus è un male o forse è un bene? La Juve è irriconoscibile. “Elkann non ha mai mostrato un vero coinvolgimento nella Juventus. L’ha finanziata, questo sì. Ha fatto aumenti di capitale, ha messo i soldi quando servivano. Ma una società di calcio non vive di capitali soltanto. Vive di competenza, di visione, di presenza. E quando queste cose mancano, i soldi diventano una stampella, non un progetto”. E quale deve essere il progetto? “La Juve non è nata per partecipare, è nata per vincere”. Dovrebbero riprendere Beppe Marotta? “Incredibile che l’abbiano lasciato andare via”. E lei ci tornerebbe alla Juventus? “Io per la Juventus sono pronto a tutto”. 

Il punto, allora, non è più soltanto la Juventus. La domanda vera riguarda l’eredità Agnelli e il modo in cui John Elkann l’ha attraversata: non consolidandola, ma impoverendola e poi dismettendola. Un pezzo alla volta. L’industria, prima. I giornali, poi. La squadra, forse, adesso. Tutto prima immediocrito, e poi venduto. Torino sullo sfondo, come una città che assiste senza poter votare. “E’ impressionante che la Fiat abbia abbandonato Torino, prima ancora della squadra. La Juventus conta, certo. Ma la Fiat era un sistema”. E quando un sistema si ritira? “La squadra segue”. Ma perché la Juventus va così male? “E’ finita nella mediocrità perché non ha una società all’altezza della situazione”. Allenatori che passano e vengono delegittimati, dirigenti scelti e poi rimossi nel giro di poco, ruoli chiave che cambiano continuamente. “Se prendi un direttore e dopo due anni lo mandi via, vuol dire che hai sbagliato a prenderlo oppure a non sostenerlo. Una delle due. Ma comunque hai sbagliato”. Chi sono i dirigenti della Juve? “Adesso sono tutti francesi”. Come nella ex Fiat. “Non li conosco nemmeno. So che ce n’è stato uno che prima si occupava di tennis”. Ecco. Ce n’è stato anche uno, ma italiano, che si occupava contemporaneamente della Juve e dei giornali. “E’ una cosa che non si sa bene se ridere o piangere”. Dicono che anche Elkann non abbia mai davvero capito il calcio. Michel Platini, ad alcuni amici, racconta spesso un episodio minimo, ma rivelatore. Una partita di beneficenza. Elkann in campo. Dopo pochi minuti è senza fiato, chiede il cambio, si siede in panchina accanto a Platini, recupera, poi chiede di rientrare. Platini lo guarda e gli dice: “Guarda che non è basket”. Una battuta, certo. Ma anche una diagnosi: l’idea che si possa entrare, uscire, rientrare. Nel calcio – e forse non solo nel calcio – non funziona così. Moggi ride. “E’ una battuta alla Platini. Plausibile”.

Con Gianni Agnelli, dice Moggi, il calcio non era mai un hobby. Era un linguaggio. “Mi chiamava alle 5 del mattino: ‘Comandante, ci sono novità?’. Poi mi chiamava suo fratello, il dottor Agnelli, cioè Umberto. Bastavano poche parole, spesso nessuna. L’Avvocato non spiegava: capiva. Aveva l’istinto degli uomini, prima ancora che delle partite”. Umberto invece, era un manager vero, uno che sapeva tenere insieme i conti e il campo. “Quando decise di prendere in mano la Juventus, lo fece perché aveva capito che la gestione del grande Boniperti non funzionava più. Si era chiuso un ciclo”. E chiamò Moggi-Bettega-Giraudo. “La triade. Vincemmo ogni cosa”. Da quella scelta nacque una Juventus nuova, costruita con metodo e senza sprechi. “La soddisfazione non era spendere, ma comprare Zidane a cinque e rivenderlo a centocinquanta dopo aver vinto tutte le competizioni”. Una società che non chiedeva soldi, ma risultati. Che comprava poco, vendeva bene, valorizzava i giovani. “A una partitella dello Sporting in Portogallo vidi un ragazzino di diciassette anni, si chiamava Cristiano Ronaldo. L’avevo ingaggiato, ma la cosa saltò perché Marcelo Salas non si volle trasferire”. Una squadra che vinse in Italia, in Europa e nel mondo, e che finì per fornire l’ossatura di due nazionali finaliste ai Mondiali del 2006 : “Quella partita Italia-Francia fu tra Juventus A e Juventus B”. Era un sistema che funzionava perché chi stava sopra sapeva scegliere chi stava sotto.

E qui infatti arriva il nome che Moggi pronuncia con cautela, quasi sottovoce: Giovannino Agnelli. L’erede mancato. Morto troppo presto. Quello che, secondo lui, avrebbe garantito una continuità naturale con l’Avvocato. “Aveva già responsabilità importanti, nonostante l’età, e un attaccamento diverso alla Juventus”. Con lui, dice Moggi, “la piega sarebbe stata un’altra. Forse non migliore per definizione, ma di sicuro coerente”. E’ qui che il confronto con Elkann diventa inevitabile. Non come giudizio personale, ma come questione di metodo. “Anche L’Avvocato Agnelli aveva ereditato, certo. Ma aveva attraversato un apprendistato lungo, aveva sbagliato, aveva imparato. Qui no: tutto insieme, tutto subito”. L’impero trasformato in portafoglio, la dinastia in holding. “E quando l’eredità non viene abitata, ma solo amministrata, i simboli diventano intercambiabili”. La Juventus, allora, non è un’eccezione. “E’ l’ultimo anello di una catena che si è spezzata prima”. E per capirlo, dice Moggi, non serve prendersela con il presente. Basta ricordarsi com’era costruito il passato.

E Andrea Agnelli? “Può darsi avesse fatto degli errori, delle spese eccessive. Non so giudicare. Ma nove scudetti consecutivi non sono un dettaglio”. Elkann lo ha allontanato, e poi sono stati soltanto fallimenti. “Ha pettinato per il verso giusto il giustizialismo sportivo. E’ la stessa cosa che accadde a me, Bettega e Giraudo”. Cos’è la riconoscenza? “Un sentimento del giorno prima”. E forse è con Andrea Agnelli che è finita definitivamente l’idea che la Juventus fosse un luogo da abitare e non solo da gestire, come dice Moggi. Da quel momento in poi, è restata una proprietà senza padrone simbolico. Chiedete a un tifoso della Juventus chi è l’attuale presidente (Gianluca Ferrero), in molti non sapranno rispondere. E questo spiega, chissà, perché oggi la crisi della Juventus, dentro la crisi della Fiat, dentro il declino di tutto ciò che viene toccato da John Elkann non sembri più un incidente, ma una sindrome.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.