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Populista a chi? Quando una parte vuole rappresentare il tutto

Siegmund Ginzberg

Muovere il popolo contro le élite: un metodo infantile ma potente. E (un po’) necessario. Così si spiega Trump, e pure Hitler e Stalin

Populismo, malattia infantile della politica, mi verrebbe da dire, parafrasando il fortunato titolo del saggio che Lenin scrisse nel lontano 1920. Il capo dei bolscevichi, divenuti partito di governo, non più di opposizione, ce l’aveva con la “sinistra” pura e dura del movimento comunista internazionale, ligia ai principi e critica di ogni compromesso. Tra parentesi, prendeva di mira chi criticava la cessione dell’Ucraina all’imperialismo tedesco (Putin continua a non perdonare a Lenin quel che considera l’origine di tutti i guai). Da allora “populismo” è diventata una parolaccia. Si parla soprattutto (e pour cause) del populismo di destra. C’è evidentemente anche un populismo di sinistra. L’uno e l’altro sono esiziali. Ma è possibile che, come tutte le malattie infantili, un po’ di populismo sia necessario, forse anche addirittura indispensabile?

Si fa presto a dire populismo. Molto più difficile accordarsi su una definizione del termine. Non è un movimento politico, non è un’ideologia, non è, a ben vedere, nemmeno una strategia, un insieme di tattiche per raccogliere consensi politici ed elettorali. I populisti pretendono di rappresentare indistintamente il popolo, di esserne la voce autentica. Si ergono a interpreti inappellabili di una maggioranza assoluta, anche quando in realtà sono minoranza. Sono una parte che pretende di rappresentare il tutto. Mal tollerano opposizione e concorrenza. Se gli capita di arrivare a governare sono strutturalmente infastiditi da stato di diritto, divisione dei poteri, tutele delle minoranze. “Parzialità radicale” la definisce Nadia Urbinati in Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia (Il Mulino, 2020). 

 

         

 

Il populismo può essere quindi considerato “un modo per fare politica”. Nella definizione più frequentemente citata (ce n’è una miriade), populismo sarebbe un modo per denotare una separazione tra due gruppi omogenei e antagonistici: il popolo e le élite del potere, quel che si dice l’establishment. Non più un conflitto classe contro classe, ma tra due modi di atteggiarsi verso la politica. Un pensatore canadese, Joseph Heath, va anche oltre, lo considera “una ribellione cognitiva” contro le classi dirigenti: intuizioni viscerali del “senso comune” contro le inevitabili complicanze della “razionalità” necessaria per governare. 

 

Nella definizione più frequentemente citata (ce n’è una miriade), populismo sarebbe un modo per denotare una separazione tra due gruppi omogenei e antagonistici: il popolo e le élite del potere, quel che si dice l’establishment

                    

Il senso comune è quello che fa dire alla gente che l’immigrazione è una sciagura, che gli immigrati portano via i posti di lavoro, stravolgono il nostro modo di vivere, che la politica è sporca e i politici sono corrotti, che la sicurezza può essere garantita solo punendo più severamente i delinquenti, che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, che le tasse sono un’esazione odiosa nei confronti dei “soliti noti”, i quali non sono in grado di evaderle, che le strutture internazionali – tipo l’Unione europea – sono punitive verso gli interessi nazionali, che le banche ci succhiano il sangue, che i dazi sulle importazioni sono un modo per difendere le nostre fabbriche, e così via. Le intuizioni viscerali del senso comune sono forti del fatto che hanno un fondo di verità. Ma vai a spiegare che le cose non stanno così, sono molto più complicate. Peggio che andar di notte se lo spieghi in modo da non farti capire. Il senso comune del popolo diffida degli intellettuali. Gli piacciono i propagandisti, le semplificazioni. “L’aspetto che più confonde del populismo è che più viene criticato dagli intellettuali, più si rafforza”, dice Heath.

Intuizioni e senso comune di pancia contro ragionamento analitico. Duello impari che potrebbe spiegare perché i movimenti populisti, di destra o sinistra che siano, hanno qualcosa in comune che spariglia le ideologie, anche quelle più consolidate, perché i populismi diffidano di chi governa e dell’establishment in generale, dei “tecnici” e della burocrazia, delle istituzioni rappresentative e della giustizia, delle banche centrali e dei loro moniti, delle autorità di controllo. 

Diffidano altresì dei mezzi di informazione. Per i nazisti i giornali erano “bugiardi”, Lügenpresse per definizione, finché non si impadronirono loro della radio e di tutti i giornali, sopprimendo quelli di opposizione, comprando una dopo l’altra anche le testate indipendenti e quelle degli alleati che li avevano portati al governo. Intimidirono le famiglie ebraiche proprietarie dei giornali più prestigiosi, costringendole prima a licenziare le firme scomode, poi a cedere tutte le testate. Lo stesso successe, a stretto giro di posta, pezzo per pezzo, anche all’impero mediatico di Alfred Hugenberg, ministro e asse portante del primo governo di coalizione di Hitler. Non lo salvò che i suoi giornali fossero più beceri, più antisemiti, più filonazisti dei nazisti. 

C’è un’affinità elettiva tra populismi e disinformazione. Su cui ha un effetto moltiplicatore il fatto che ai giornali e alle radio, e ormai anche alle tv, si siano sostituiti altri media assai più potenti e capillari. Instagram, TikTok, X, l’ormai vetusto Facebook, sono assai più attrezzati a offrire una cacofonia di semplificazioni, intuizioni viscerali, anziché un confronto di ragionamenti articolati e razionali, nel merito. Offrono un ambiente di comunicazione pubblica “drammaticamente ostile allo stile analitico” – così la spiega Heath. Non concepiscono contraddittorio. Sono il medium ideale per chi, come Trump, un giorno dice una cosa e il giorno dopo un’altra.  Sono anche incomparabilmente più “veloci” della carta stampata, e persino dei talk show.  

 

C’è un’affinità elettiva tra populismi e disinformazione. Su cui ha un effetto moltiplicatore il fatto che ai giornali e alle radio, e ormai anche alle tv, si siano sostituiti altri media assai più potenti e capillari

             

Un geniale ed eclettico studioso americano di origine russa, Peter Turchin, specializzato nell’analisi dei “cicli lunghi”, nel suo End Times: Elites, Counter-Elites and the Path of Political Disintegration (Penguin, 2023) presenta un’affascinante (quanto spaventosa) carrellata millenaria sulla storia interpretata, fino ai giorni nostri, in termini di conflitto tra élite e contro-élite. Offre una possibile spiegazione del perché Trump. Ma anche del perché Hitler, del perché Stalin (che notoriamente aveva fondato il suo enorme potere sulla nomenklatura sovietica, sterminando intellettuali e dissenzienti), del perché Mao. Quest’ultimo aveva cavalcato l’avversione popolare ai mandarini rossi. La rivoluzione culturale fu una spietata resa dei conti al vertice. Qualcuno, anche tra i migliori cervelli della sinistra occidentale, si era bevuto la favola della “ribellione delle masse”.  

La “sovrapproduzione” di élite (elite overproduction) spiegherebbe, tra l’altro, tutte le crisi che hanno travagliato, nei millenni, le dinastie cinesi e l’impero romano, le guerre di religione e l’ancien régime in Francia, e via dicendo, fino a quelle del nostro nuovo millennio. Turchin si avventura, sulla base di modelli matematici, in previsioni tutt’altro che rassicuranti sul futuro della democrazia. Aveva previsto, in tempi non sospetti, gli sconvolgimenti dell’èra Trump negli Stati Uniti. Si spera che sbagli i calcoli, ma c’è da far venire i brividi. L’unica consolazione è che i catastrofismi di ogni genere si sono rivelati quasi sempre fallaci.

 

              

 

E’ una vecchia storia. I capisaldi del discorso populista che abbiamo appena elencato nella versione contemporanea, che leggiamo e vediamo ogni giorno nei notiziari, sono gli stessi che portarono Hitler al potere in Germania negli anni Trenta. Sostituite ebrei con immigrati, bolscevismo con sinistra, plutocrati con ricchi, corruzione del regime (democratico) di Weimar con regime parlamentare, quelli che proteggono i criminali e i depravati, quelli che vogliono male alla Germania, che ne soffocano l’economia, che le negano lo spazio vitale, che vogliono sostituire il popolo tedesco, e via dicendo, con i discorsi dell’attualità, e avrete una copia carbone. Il Terzo Reich era un’orgia sfrenata di popolo, Volk, Volkisch, in contrapposizione al tradimento e alla perfidia delle élite. In un libro che scrissi qualche anno fa, Sindrome 1933 (tuttora in commercio per Feltrinelli) elencavo una serie di analogie che potevano far venire in mente al lettore quel che si sente dire oggi – e pensare che il fenomeno Trump allora era solo in boccio. Confessavo anche la difficoltà nel definire con un solo termine la versione contemporanea. Fascismi, mi pareva incompleto, inesatto, inefficace. Populismi, appena un po’ più adeguato. Ancora non ne sono venuto a capo. Le analogie possono aiutare a riflettere e comprendere, ma ovviamente non dicono tutto. Non sono tuttora in grado di proporre un termine soddisfacente per quel che sta succedendo. Un fatto è che il populismo aiutò il nazismo ad affermarsi. Così come è un fatto che le destre sono andate al governo in mezzo mondo suscitando e poggiandosi a un’ondata di populismo, di “senso comune”, di maldipancia e risentimenti popolari. E temo non sia finita. 

E allora? Che fare? A populismo, populismo e mezzo? Non funzionerebbe. Lo slogan semplice, l’appello al senso comune di pancia, negli attuali frangenti, funziona meglio per i populismi di destra che per i populismi di sinistra. Il senso comune è intrinsecamente conservatore, diffida per sua natura dei riformatori e dei discorsi troppo complicati. E’ più facile cavalcare ansie e malcontento. 

Trump si è fatto eleggere promettendo una rivoluzione, l’abbattimento del sistema vigente e di tutti i valori consolidati. Ha cambiato da cima a fondo la “narrazione”. Ma anche la sostanza. Niente più solidarietà sociale e solidarietà internazionale. Via la vaccinazione obbligatoria che protegga tutti. Niente più sprechi per il clima. Niente più difesa dei più deboli, dei diversi. Ha cavalcato quella parte del senso comune che diceva: abbiamo già dato fin troppo, ora pensiamo a noi americani. Al diavolo tutti gli altri, amici e alleati compresi. Se poi qualcosa non va per il verso giusto, è più facile dare la colpa di tutto alle élite in blocco e additarle come capro espiatorio.

Non è un caso che le destre, in America come in Europa, siano giunte al potere dando la colpa di tutto a chi governava prima di loro, e continuino a farlo anche laddove ora governano loro. Non è un caso che di fronte a difficoltà di qualsiasi tipo,Trump continui a incolpare Biden e Obama. Così fanno ormai sistematicamente anche le destre nostrane. I dazi non stanno facendo di nuovo grande l’America come promesso,  non creano più posti di lavoro e più fabbriche, le entrate non coprono il deficit fiscale, i prezzi continuano ad aumentare? Colpa dei democratici e dei giudici che si sono messi di traverso. Le retate dei migranti non in regola stanno creando più problemi di quanti ne risolvano? Idem. Non funzionano i centri in Albania? Idem con patate: è colpa della Schlein. E così via andare con lo scaricabarile delle responsabilità. Non più: “Piove governo ladro!” Ma: “Piove, ladro il governo di prima!”.

 

Al diavolo tutti gli altri, amici e alleati compresi. Se poi qualcosa non va per il verso giusto, è più facile dare la colpa di tutto alle élite in blocco e additarle come capro espiatorio

            

Le destre vincono certo perché parlano alla pancia, e in modo da farsi capire dai più. Vincono perché hanno un’ideologia (il Maga nell’America di Trump, qualcosa di ancor più anacronistico e impresentabile dalle nostre parti). Mentre la sinistra l’ideologia, per tutta una serie di circostanze storiche, l’ha persa per strada. Vincono perché indovinano una leadership forte. Ma soprattutto vincono se riescono a mettere insieme una coalizione che tiene, o riescono a farsi accettare in una coalizione (in Italia la destra estrema c’è riuscita, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania non ancora). La “coalizione”, il mix che ha portato Trump alla Casa Bianca andava dai super ricchi di Wall Street e della Silicon Valley agli operai delle fabbriche dismesse, agli immigrati di più vecchia data che ce l’hanno coi nuovi immigrati irregolari, dai red necks del Sud a parte dei neri e degli ispanici delusi dai democratici. Mamdani ha vinto a New York grazie anche a un populismo “ragionante”. Ma i democratici americani avranno bisogno anche di altri spezzoni di consenso per costruire un blocco per la rimonta. Nessuno ce la può fare se non coinvolge anche altri, i non affini. 

 

          

 

Il discorso analitico non è evidentemente rinunciabile. Qualunque forza politica che si affidasse al solo discorso populista, di propaganda, si darebbe la zappa sui piedi, si condannerebbe a un’opposizione senza fine. Acquisirebbe magari qualche merito presso il proprio zoccolo duro, qualche consenso elettorale in più (e neanche questo è detto), ma finirebbe per mettersi contro un’altra parte decisiva per acquisire legittimità a governare. Perderebbe le élite “ragionanti”. Partito di lotta e di governo si diceva una volta. I partiti di lotta e basta non vanno da nessuna parte. In democrazia non vince chi grida di più o chi porta più gente in piazza. E nemmeno chi ha le proposte migliori, le idee più ragionevoli e più giuste. Vince chi sa fare politica, riesce a mettere insieme un blocco maggioritario, fatto di componenti diverse, a volte magari contraddittorie tra loro

Di un poco di populismo ha bisogno anche la sinistra. Purché non scolli, non sfracelli la possibile, indispensabile, “coalizione”. Che i lavoratori, le cui buste paga sono rimaste indietro rispetto agli operai del resto d’Europa, rivendichino aumenti salariali non è per niente scandaloso. Lo sarebbe se non gli importasse nulla del rischio di imporre a tutti, loro per primi, la tassa più iniqua e devastante di tutte: l’inflazione. Se ci si dimenticasse di battersi per una crescita credibile. Non vedo cosa ci sia di così scandaloso nel chiedere una redistribuzione del prelievo fiscale, un contributo da parte di tutti, e non solo di buste paga e cedole di pensione. Sul come, se non piace il modo in cui lo fa Landini, dovrebbe pensarci qualcun altro. E’ un’iniziativa politica come un’altra. La cosa imperdonabile è un’altra: farlo a ranghi sparsi. Mobilitare gli stanchi, i disillusi, i disaffezionati della propria parte è una necessità. Farlo spaventando, allontanando tutti gli altri, i più, chi risparmia, chi è proprietario della propria abitazione, è peggio di una promessa populista che non si può mantenere, è un autogol. 

 

Di un poco di populismo ha bisogno anche la sinistra. Purché non scolli, non sfracelli la possibile, indispensabile, “coalizione”

                       

La sinistra italiana ha una lunga tradizione di dissociazione dal populismo. Lama, Trentin, De Carlini, Pizzinato, i leader sindacali della sinistra della mia generazione erano tutt’altro che populisti. Ricordo Luciano Lama e Giorgio Amendola che avevano la pazienza di spiegare a me, giovanotto di ingenui entusiasmi, perché sarebbe stato esiziale impuntarsi sulla scala mobile. Già Gramsci (in carcere dopo una sconfitta epocale della propria parte) si interrogava sull’argomento populismo: “E’ da vedere se anche un fenomeno di questo genere non sia molto significativo e importante storicamente e non rappresenti una fase necessaria di transizione e un episodio dell’‘educazione popolare’ indiretta. Una lista delle tendenze ‘populiste’ e un’analisi di ciascuna di esse sarebbe interessante: si potrebbe ‘scoprire’ una di quelle che Vico chiama ‘astuzie della natura’, cioè come un impulso sociale, tendente a un fine, realizzi il suo contrario”.