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La parola al Veneto

Autonomia, tutte le tappe di un processo mai compiuto

Francesco Gottardi

Dagli slogan bossiani al plebiscito online sull’indipendenza, che innescò il referendum di Zaia nel 2017. Fino alla firma della pre-intesa con Calderoli: “Un contentino illusorio, la Lega e la politica hanno dimenticato l’importanza delle riforme federaliste”. Parlano Marzio Favero e Gianluca Busato

Altro che “madre di tutte le battaglie”. Martedì mattina, a pochi giorni dal voto in Veneto, Luca Zaia e il ministro Calderoli hanno firmato la cosiddetta pre-intesa sull’autonomia differenziata. Ma a patto che un giorno si arrivi davvero alla realizzazione della riforma – “gravemente mutilata” dalla Corte costituzionale, dopo i proclami in pompa magna dell’attuale governo – nel nordest la ritengono in ogni caso “un contentino illusorio. O uno stress test per capire le buone intenzioni di alcune forze politiche”. Piuttosto che niente, insomma, è sempre meglio piuttosto. Eppure è ormai da tempo immemore che se ne parla invano, infervorando innumerevoli campagne elettorali – anche quella in corso – e facendo leva sul dibattito pubblico. Senza poi alcun seguito.

 

“Eravamo a Pontida, nel 1994”, ricorda Marzio Favero, consigliere regionale uscente, non ricandidato, e filosofo della Liga veneta. “Mi ritrovai a sentire un illuminante discorso di Gianfranco Miglio”, l’ideologo di quella lombarda. “Sosteneva già allora che il capitalismo sociale della nostra terra necessitava di risposte che non arrivassero da uno stato troppo lontano. L’eccessiva concentrazione del potere in senso centralista aveva innescato un profondo deficit di democrazia. Miglio proponeva un cambiamento in senso federale, partendo dal presupposto che i territori non potevano essere rappresentati in modo univoco a Roma. Urgeva un ritorno alle comunità produttive, internazionalizzate, aperte, che trovavano un freno nella legislazione italiana”. Divennero gli slogan di Bossi. “E tali rimasero. Senza che oggi, al netto di tutte le vicissitudini politiche, le cose siano cambiate davvero”.

 

È un excursus disincantato e sentito, che continua a scaldare gli animi di milioni di veneti. “Dopo la rottura con Miglio e l’alleanza con Berlusconi”, continua Favero, “qualsiasi possibilità di riforma radicale sparì. Fra i demeriti del Cav. va sottolineato l’equivoco della democrazia diretta attraverso i sondaggi d’opinione, che hanno cambiato le regole e il linguaggio della cosa pubblica. Un sistema cognitivo che appartiene ai media, non alla politica: cioè strappare consenso in tempi rapidi, senza alcuna visione di lungo periodo o seri percorsi di cambiamento istituzionale – di solito, voti alla mano, estremamente dolorosi”.

 

La storia in tappe, con qualche data chiave. “La riforma del Titolo V nel 2001, progettata obtorto collo dalla sinistra per tenere a bada le spinte autonomiste: pessima, e tra l’altro non ha mai trovato vera attuazione (la riforma odierna, di Calderoli, è un umile tentativo di portarla a compimento). Poi il referendum sulla devoluzione dei poteri alle regioni, al termine del mandato di Berlusconi nel 2006. Sappiamo come andò a finire”. Votarono per il Sì soltanto Veneto e Lombardia. Per riaprire il dibattito, sarebbe servito qualcosa di impensabile.

 

Arriviamo così al 2014. La spinta autonomista è diventata fai-da-te, estremizzata e provocatoria. Un ex militante della Liga ha dunque l’intuizione di organizzare un referendum online – naturalmente privo di valore legale – chiedendo ai veneti di pronunciarsi sull’indipendenza. Fu un successo clamoroso, per quanto i dati non abbiano i contorni dell’ufficialità: 2,3 milioni di clic, quasi il 90 per cento di voti a favore. “Quell’iniziativa creò molto più clamore all’estero che in Italia”, racconta oggi Gianluca Busato. “Da un giorno all’altro arrivarono da queste parti le troupe di Al-Jazeera, Cnn, Bbc. E in meno di due settimane, sulla spinta di quel verdetto popolare, il consiglio regionale approvò quei progetti di legge referendaria per l’indipendenza e l’autonomia che erano chiusi nel cassetto da anni”. Il primo venne bocciato dalla Consulta. Il secondo, dopo significativi aggiustamenti sulla questione fiscale, venne avallato fino a diventare il famoso referendum consultivo del 2017. “I risultati alle urne si rivelarono identici a quanto avevamo constatato noi sul web. Luca Zaia ha avuto grandi meriti in quell’occasione. Ma più che una vittoria di Zaia, fu una vittoria di Pirro: la non attuazione di quelle promesse ha segnato la sua condanna a morte a livello politico, con lo scarico della sua figura da parte dei leader di centrodestra. Al governatore riconosco grandi capacità amministrative. Ma non ha lo spirito né la volontà di recitare un ruolo politico: qualcosa che al Veneto manca terribilmente”.

 

Va distinto il folklore dal pragmatismo. Busato si definisce tuttora “indipendentista convinto”, in quel 2014 aveva simbolicamente proclamato l’indipendenza del Veneto da Treviso e nel 1997, quando i Serenissimi occuparono il campanile di San Marco a bordo del ‘Tanko’, fu la prima persona “a subire la perquisizione delle forze dell’ordine: già allora avevo un sito internet che suscitava un certo clamore. Ovviamente quelle pratiche vennero archiviate. Attenzione però a non farsi ingannare dalla nostalgia: noi veneti siamo legati alla tradizione, ma siamo soprattutto orientati al futuro. La Serenissima era un motore d’innovazione e d’arti liberali d’avanguardia. Non va presa a esempio in senso passatista”. Dunque, a proposito di avvenire, cosa resta di quella chiamata referendaria di otto anni fa? “L’autonomia così concepita è quasi farlocca: non va a intaccare minimamente il residuo fiscale, cioè quei 15-20 miliardi di euro che ogni anno vengono pagati in tasse dai veneti e che non tornano nel territorio sotto nessuna forma. È un escamotage politico che dà – o meglio dava – alla Lega lombardo-veneta il suo senso di esistere. Se fra un decennio ci si dovesse mettere d’accordo sui Lep e quant’altro, verrebbero trattenuti al massimo 1-2 miliardi di euro: risorse che lo stato già spende in Veneto, in quel modo finirebbero gestite dalla regione”. Piuttosto che niente, appunto. “Ma del vero federalismo non c’è traccia. E il Carroccio, che è sempre stato un partito d’impostazione leninista, ha tradito la propria vocazione naturale e originaria sul banco dell’opportunismo di governo”.

 

L’aspetto curioso, pur nella diversità di vedute, è che sia Favero sia Busato conferiscono all’Italia attuale “lo status di palla al piede”, mentre l’Unione europea rappresenta un’opportunità. “Come sosteneva Norberto Bobbio”, di nuovo il consigliere regionale, “lo stato centrale è troppo grande per gestire i territori e troppo piccolo per le dinamiche internazionali. Una riforma federale dell’Italia va accompagnata da un’analoga riforma dell’Europa, che a oggi non riesce a incidere come dovrebbe. La battaglia per il federalismo è anche una battaglia per la democrazia: più il potere è vicino ai cittadini, più aumentano le loro facoltà di scelta. E diminuiscono inefficienze, sprechi, paralisi amministrative”. Ultima data. “Polemizzai coi vertici del mio partito nel 2011 – che ancora sovranista non era, ndr – durante i 150 anni dell’Unità d’Italia: cercai di spiegare che il movimento risorgimentale fu innanzitutto autonomista. Garibaldi chiese aiuto a Carlo Cattaneo per capire come riformare il Sud. E il re quasi cadde dalla sedia. Era federalista anche Mazzini. Il mondo attuale poggia su queste basi eppure si ritrovò sopraffatto dall’impostazione dello stato-caverna dei Savoia, poi potenziata dal fascismo e conservata da Don Sturzo e De Gasperi nel Dopoguerra. Guardate invece alla Germania. Ai suoi Länder, al suo benessere strutturale”. Nel nordest ancora non se ne capacitano. “Diceva il filosofo Antonio Rosmini: “L’Italia è per la bellezza, e la bellezza è unità nella varietà”. Per cosa sia il Veneto, invece, è presto detto.

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