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l'editoriale del direttore

Abolire il garante dello sputtanamento

Claudio Cerasa

Il problema del garante non è un conflitto di interessi ma l’incapacità di difendere un altro interesse: la lotta feroce contro la cultura del linciaggio, avallata da pm spregiudicati e giornalisti velinari. Ragioni di un fallimento

Esattamente, di cosa stiamo parlando? Con il massimo rispetto per le appassionanti polemiche relative al futuro del Garante per la privacy, con tutto il noto corredo fatto di accuse, di politicizzazione di una nomina politica, di conflitto d’interessi, di una nomina figlia di equilibri di partito, di battaglia tra i partiti su quale sia il partito che ha più titolo a parlare di nomine di partito, la questione che riguarda il dibattito che si è sollevato attorno a una delle authority più famose d’Italia rappresenta l’ennesima occasione persa per guardare la luna anziché il dito quando si parla di privacy in Italia, e soprattutto della sua tutela. Lo diciamo con rispetto, senza polemica, con il sorriso sulle labbra, ma se davvero si vuole andare al cuore dei problemi quando si ragiona attorno all’identità persa dal garante per la protezione dei dati personali bisognerebbe avere il coraggio di dire che il tema centrale della questione non ha a che fare con la rimozione o no di un garante ma ha a che fare semmai con una rimozione ancora più importante e necessaria: quella del Garante in quanto tale. Il Garante per la privacy, come avrebbe detto Fantozzi, è diventato una boiata pazzesca, non per questioni che riguardano i conflitti di interesse, ma per questioni che riguardano il fallimento strutturale di un’authority che ha sempre cercato con cura di non occuparsi di una delle grandi violazioni di privacy che da trent’anni sfregiano quotidianamente la nostra democrazia.

Il Garante per la privacy, in questi anni, si è interessato di tutto, con una particolare attenzione alle battaglie semplici, non divisive, comode, rassicuranti. Si è speso per tutelare i cookie, per vigilare sui banner, per proteggere le newsletter, per arginare i droni, per governare la profilazione degli utenti online, per puntellare la politica sui Green pass, sull’app Immuni, sui cloud della P.a., e ha sempre dedicato una grande attenzione anche ai casi in cui gli utenti, volontariamente, offrono alla rete elementi della propria privacy. In questi anni, però, il Garante si è invece totalmente dimenticato di occuparsi, tranne rarissime eccezioni, di una violazione della privacy dei cittadini non secondaria, come può essere quella che riguarda la distruzione della vita degli altri messa in campo dai protagonisti del processo mediatico. Occuparsi di cookie è ovviamente più semplice che occuparsi di magistrati spregiudicati che sputtanano il prossimo offrendo dettagli non necessari sulla vita degli indagati e anche dei non indagati. Occuparsi di newsletter è ovviamente più semplice che occuparsi di giornalisti che trasformano la libertà di stampa in libertà di sputtanamento, e che diventano la buca delle lettere delle veline delle procure, anche quando le veline contengono infamanti intercettazioni penalmente irrilevanti.

Il Garante per la privacy, piuttosto che occuparsi della privacy distrutta in modo discrezionale dal circo mediatico-giudiziario, ha invece scelto in questi anni non solo di chiudere gli occhi ma di avallare quel meccanismo perverso che ha trasformato la violazione della privacy in una prassi quotidiana, scontata, legittima. Un esempio utile da offrire a coloro che vi diranno che no, non è vero, il Garante per la privacy è sempre pronto a castigare chi vìola la privacy, è sempre attento a sanzionare i magistrati che esondano sui dati personali. Uno e solo uno, ma di esempi se ne potrebbero fare a decine. La procura di Milano, nell’inchiesta sull’urbanistica, ha acquisito le chat tra l’eurodeputato Pierfrancesco Maran e il costruttore Manfredi Catella senza chiedere l’autorizzazione del Parlamento europeo, come impone la sentenza della Consulta n. 170/2023. Le conversazioni, penalmente irrilevanti, sono poi finite sui giornali, hanno creato fango e hanno alimentato il circuito della gogna mediatico-giudiziaria. Richiami del Garante? Zero. Sanzioni del Garante? Zero. Eppure, l’articolo 2 ter del Codice privacy e l’articolo 8 della Cedu, il rispetto della vita privata, danno strumenti per agire contro la diffusione ingiustificata di dati personali in procedimenti penali e consentono al Garante di intervenire sugli sputtanamenti del circo mediatico-giudiziario, ma consentire non significa obbligare. Il risultato di questo cortocircuito è più osceno che semplicemente paradossale. Viviamo in un sistema in cui la privacy volontaria – quella che cediamo a Meta o Google – è regolata in modo minuzioso, mentre la privacy involontaria – quella che viene distrutta da un’indagine, da un titolo di giornale, da un’inchiesta spettacolarizzata – è di fatto abbandonata a se stessa. Viviamo, in altre parole, in un sistema in cui il Garante per la privacy si occupa dello sputtanamento a mezzo stampa solo quando coinvolge il garante stesso per la privacy. Viviamo in un sistema all’interno del quale il Garante della società della privacy ha scelto di essere un garante della dittatura del moralismo e ha scelto di far agire in modo pressoché indisturbato i manovratori del tritacarne mediatico, fino a legittimarli, fino a diventare il bollinatore ufficiale della repubblica dello sputtanamento e dell’uso indiscriminato del buco della serratura. (Il compianto Stefano Rodotà, ex Garante per la privacy, un gigante, se confrontato con i suoi successori, divenne suo malgrado un simbolo di quella repubblica dei moralisti, in formato grillino, che nel 2011 tentò di portarlo nientemeno che al Quirinale).

Sarebbe dunque un sogno, e sarebbe oltremodo rassicurante, pensare che in Italia esista un problema legato a un Garante per la privacy meno bravo di qualcun altro. Sarebbe un sogno, sarebbe un paradiso, ma la verità è molto diversa. E se la si vuole mettere a nudo fino in fondo bisognerebbe avere il coraggio di dire che per avere una privacy più tutelata bisognerebbe non cambiare la figura del garante ma chiudere per un po’ l’autorità. Non perché un Garante per la privacy non serva – al contrario – ma perché avere un Garante per la privacy che scopre l’orrore della repubblica basata sul linciaggio solo quando il linciaggio riguarda un Garante aiuta a legittimare l’orrore di un paese che ha fatto della cultura della gogna un’arma legittima della lotta politica, con tanto di bollinatura del Garante. Il problema non è dunque il conflitto di interessi di un garante ma l’incapacità del garante di difendere un interesse necessario in uno stato di diritto: la lotta feroce contro lo sputtanamento della vita degli altri.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.