
(LaPresse)
Due menù e un solo governo
Salvini apparecchia promesse di pace fiscale e flat tax, Giorgetti sparecchia con Lagarde e con i mercati
Il leader della Lega annuncia le solite costose proposte, che sono tuttavia impraticabili anche a causa della turbolenza dei mercati scatenata dal suo amico Donald Trump. L'Italia resta il paese fondatore con il debito più alto dell’Eurozona
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti incassa i complimenti di Christine Lagarde, che lo indica persino come modello ai francesi alle prese con i conti pubblici, e fa i conti con la Bce e con i mercati. Il vicepremier e segretario della Lega Matteo Salvini, invece, fa i conti con i sondaggi, segue l’agenda elettorale e si affida ai consigli economici di Claudio Durigon. L’uno misura i decimali del pil, l’altro i decimali del gradimento. L’uno guarda i rendimenti dei titoli di stato, l’altro le ricerche su Google Trends. Stanno nello stesso governo, siedono allo stesso tavolo, ma parlano due lingue diverse. Ieri pomeriggio, per dire, si è tenuta una riunione, voluta da Salvini, con un obiettivo preciso: cucinare un pacchetto di proposte economiche della Lega da esibire almeno fino alle elezioni regionali. Perché al segretario servono scorte da dispensa.
A lui servono riforme sottovuoto pronte da scaldare ai comizi. Sicché bisogna proprio immaginarseli insieme, Salvini e Giorgetti, ieri, riuniti con gli altri dirigenti della Lega, come due coinquilini che dividono la stessa cucina. Il primo riempie la lista della spesa con ogni genere di pietanza, il secondo lo lascia fare, tanto poi ai fornelli dell’Economia ci sta lui con Giorgia Meloni. Sul tavolo, infatti, il cuoco Salvini ha servito il solito menù della casa. Antipasto di pace fiscale “definitiva” (che torna sempre, come gli avanzi in frigo), primo di flat tax al 15 per cento fumante, secondo di cartelle esattoriali rottamate alla griglia, contorno di banche spremute per i loro extraprofitti (con la differenza che Salvini immagina quei miliardi per regalare un gelato e un buffetto a tutti mentre il ministro dell’Economia pensa a rattoppare i conti pubblici). E per chiudere il pasto, l’immancabile digestivo: autonomia e federalismo fiscale. Salvini cucina, Giorgetti conta le calorie, ma la dispensa è vuota. E infatti il ministro dell’Economia ha preso nota in silenzio. Non perché ci creda alla lista, ma perché conosce la regola non scritta. Salvini deve avere sempre qualcosa da annunciare, fosse anche l’ennesima “pace fiscale definitiva” che definitiva non è mai. Lui lo lascia parlare, tanto sa che alla fine i conti li farà il suo ministero, con Bruxelles e con la Bce a controllare i numeri. E i numeri, appunto, non scherzano. L’Italia resta il paese fondatore col debito più alto dell’Eurozona: oltre il 135 per cento del pil.
Una montagna che non si scioglie nemmeno col caldo di Pontida. Ieri la Bce ha ricordato che la disciplina resta essenziale. Lagarde ha persino aperto alla possibilità che Roma esca in anticipo dalla procedura per deficit eccessivo, ma a condizione che il rigore e l’affidabilità nella gestione della finanza pubblica dimostrati finora non vengano meno. Basta un passo falso perché lo spread torni a ballare. In Francia i rendimenti hanno già superato i livelli di guardia, la sterlina affonda, i Treasury americani corrono nell’instabilità globale creata da Trump. Se l’Italia è stabile è solo perché tiene a freno la spesa. E qui sta il paradosso: le politiche costose immaginate da Salvini sono rese impraticabili anche dalla turbolenza dei mercati scatenata da Donald Trump. Se non può fare ciò che promette, e se Giorgetti è condannato al rigore, al segretario della Lega non resta che citofonare all’amico americano per lamentarsene. Con lo stesso tono di quando, anni fa, suonava ai citofoni di Bologna. Solo che stavolta non è un portone di periferia: è la Casa Bianca.