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L'editoriale del direttore

Fine degli atti politici. Le carte su Nordio, Piantedosi e Mantovano sono il manifesto dell'interventismo della magistratura

Claudio Cerasa

Negli stessi istanti in cui il Tribunale dei ministri riconosce che la separazione dei poteri è un principio sacrosanto, si arriva a sostenere che a decidere cosa è politica e cosa no è sempre e soltanto un giudice, che può decidere in modo autonomo quando le esondazioni sono accettabili e quando non lo sono. Confessioni pericolose

Arrivati a questo punto la domanda è più che lecita: ma cosa vuol dire esattamente “esondazioni” quando si parla del rapporto tra politica e magistratura? Per rispondere a questa domanda, forse, il modo migliore è dare la parola a un giudice molto sincero. Seguite il filo. Nelle carte inviate martedì sera dal Tribunale dei ministri alla Giunta per le autorizzazioni della Camera, carte relative alle indagini sul ministro Carlo Nordio, sul ministro Matteo Piantedosi, sul sottosegretario Alfredo Mantovano, c’è un passaggio importante, e piuttosto clamoroso, che riguarda una sorta di confessione dei giudici. Siamo a pagina 88. I giudici del Tribunale dei ministri partono con una excusatio non petita, per così dire, in cui riconoscono che la magistratura deve stare sempre attenta a non travalicare i confini del corretto rapporto tra potere giudiziario e potere politico. La frase è perfetta: “Il giudice non può essere chiamato a fare politica in luogo degli organi di rappresentanza: lo preclude il principio ordinamentale della separazione tra i poteri”. Un istante dopo però i giudici cambiano tono, e si capisce perché.

 

             

 

“Ove, viceversa, vi sia predeterminazione dei canoni di legalità, quello stesso sindacato si appalesa doveroso. Il giudice, quale che sia il plesso di appartenenza, è non solo rispettoso degli ambiti di attribuzione dei poteri, ma anche, sempre per statuto costituzionale, garante della legalità, e quindi non arretra là dove gli spazi della discrezionalità politica siano circoscritti da vincoli posti da norme che segnano i confini o indirizzano l’esercizio dell’azione di governo”. E dunque: “Il principio della separazione dei poteri non può essere invocato quando l’azione politica produce effetti contrari al diritto penale: in tal caso, l’attività giudiziaria prevale su quella politica”. In sostanza, i giudici riconoscono un principio: la magistratura non può sostituirsi alla politica. Un istante dopo dicono che il giudice però, in modo discrezionale, può decidere liberamente quando la magistratura può distinguere un atto politico da uno non politico. E in definitiva, negli stessi istanti in cui riconosce che la separazione dei poteri è un principio sacrosanto, si rivendica il fatto che la decisione di ciò che costituisce un atto politico sia tutta nelle mani dei giudici, arrivando dunque a sostenere che a decidere cosa è politica e cosa no è sempre e soltanto un giudice, che può dunque decidere in modo autonomo, appellandosi a un suo diritto soggettivo, quando le esondazioni sono accettabili e quando non lo sono.  

I giudici del Tribunale dei ministri – che sanno perfettamente che ciò che loro non considerano un atto politico verrà validato come atto politico quando la richiesta di autorizzazione a procedere arriverà al vaglio del potere legislativo – rivendicano in altre parole il diritto a sindacare in modo discrezionale gli atti politici della politica, appellandosi a una sentenza molto ambigua della Corte costituzionale, la sentenza n.  81/2012, che stabilì come violare l’equilibrio di genere in una Giunta regionale, quella campana, fosse un atto illecito e non politico, e così facendo dimostrano quello che è sotto gli occhi di tutti: intorno al caso Almasri non vi è solo una questione di eventuali illeciti commessi dai ministri ma vi è una questione più grande, che riguarda chi ha l’ultima parola, tra magistratura e politica, sui confini di cosa è sicurezza nazionale.

Vale quando si parla di casi come quello di Almasri – caso che, anche se nessuno lo ricorda, pur essendo legato a una richiesta di arresto da parte della Corte penale internazionale lasciava alla politica un margine di discrezionalità superiore rispetto alla norma, come capita ogni volta che vi è un atto all’interno del quale la procedura non chiede ai paesi di “eseguire” una scelta ma di “collaborare” ad adempiere a una scelta. Ma vale anche quando si parla di immigrazione, per esempio, e i margini di discrezionalità che la magistratura ha scelto di avere nel valutare cosa sia sicurezza nazionale e cosa no (vedi la Corte di giustizia europea sul tema dei paesi sicuri) sono gli stessi che portano i giudici a considerare le politiche migratorie in termini di rimpatri una questione che deve riguardare in ultima istanza i giudici e non la politica, come se fosse normale e ordinario che la definizione di una politica migratoria di un governo possa essere soggetta alle valutazioni discrezionali di ciascun giudice d’Italia e anzi d’Europa. Il caso Almasri, dunque, è lo specchio perfetto dei cortocircuiti che esistono tra potere giudiziario e potere esecutivo. Ma gli atti inviati dal Tribunale dei ministri alla Giunta per le autorizzazioni sono un documento prezioso anche perché rappresentano in purezza un manifesto utile a dimostrare quello che molti magistrati considerano ormai un diritto acquisito: fingere di essere rispettosi del perimetro della politica salvo riconoscere che a decidere cosa è politica e cosa non è politica alla fine sono e saranno sempre i magistrati, senza rendersi conto che non c’è nulla di più politico che voler definire in modo discrezionale cosa è un atto politico e cosa no. E’ la Repubblica delle esondazioni, dove gli unici pieni poteri che dovrebbero allarmare l’opinione pubblica non sono quelli della politica ma sono ancora una volta quelli della magistratura. 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.