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memento battisti
Perché Meloni commetterebbe un grave errore a estradare in Brasile la deputata Zambelli
La premier e il ministro della Giustizia Nordio dovrebbero prendersi il tempo necessario per valutare il rispetto delle garanzie processuali e dei diritti umani nel paese sudamericano. Lula si è fidato di più di Cesare Battisti che dell’Italia. L’Italia può fidarsi dello stato di diritto del Brasile?
Nei giorni scorsi è stata arrestata la deputata brasiliana Carla Zambelli, che era latitante in Italia per sfuggire a una condanna subìta nel suo paese per aver hackerato il sistema del Consiglio nazionale della giustizia. Zambelli è un’esponente dell’estrema destra dell’ex presidente Jair Bolsonaro, accusata tra l’altro di diffondere disinformazione e di aver puntato una pistola, posseduta illegalmente, contro un uomo per strada. Lei, ovviamente, si ritiene una “perseguitata politica” del governo socialista di Lula. L’Italia, in un rapporto di collaborazione con un paese democratico dovrebbe estradarla, ma in questo caso il governo Meloni dovrebbe pensarci bene. O meglio, a lungo. Proprio come fece il Brasile con Cesare Battisti. I due casi sono simili, sebbene per certi versi incomparabili. Nel senso che la vicenda di Cesare Battisti era molto più grave, trattandosi di un ex terrorista che si era macchiato, tra gli altri, di reati di sangue per cui era stato condannato a due ergastoli: l’omicidio di quattro persone (gli agenti Antonio Santoro e Andrea Campagna, il gioielliere Alberto Torregiani e il macellaio Lino Sabbadin). In quella circostanza il Brasile, e nello specifico l’allora e attuale presidente Lula, negò l’estradizione con argomenti tanto infondati quanto oltraggiosi per l’Italia.
La vicenda è molto complicata ma in sostanza l’ex esponente dei Pac (Proletari armati per il comunismo), dopo decenni di latitanza dorata in Francia sotto l’ombrello della dottrina Mitterrand e la protezione intellettuale della gauche italo-francese, quando finalmente nel 2007 le autorità francesi concessero l’estradizione fuggì in Brasile. Qui, venne arrestato, anche perché entrato illegalmente con documenti falsi, ma non venne estradato in Italia perché nel 2009 ottenne lo status di “rifugiato politico” su decisione di Tarso Genro, ministro della Giustizia del governo Lula, per l’esistenza di un fondato “timore di persecuzione” delle autorità italiane nei confronti dell’ex terrorista. Inoltre, il governo brasiliano metteva in dubbio la regolarità del processo contro Battisti per l’assenza delle dovute garanzie. Ma l’anno prima, proprio su ricorso di Battisti, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva confermato che le condanne a carico del membro dei Pac erano conformi ai canoni dei princìpi del giusto processo. La decisione brasiliana suscitò una reazione unanime, inclusa quella dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che certamente non poteva essere tacciato di “fascismo” (era anche questa una delle accuse che dal Brasile si muovevano all’allora governo Berlusconi): “Non è accettabile che crimini come quelli commessi da Cesare Battisti siano dimenticati o peggio ancora assolti in considerazione di una loro indefinita e inesistente ‘natura politica’”, scrisse Napolitano in una lettera a Lula manifestando “stupore e profondo rammarico”. Ma Lula difese il suo ministro, che d’altronde era anche un esponente del suo Partito dei lavoratori: “Il nostro paese è sovrano”, fu la risposta a Napolitano. Ma quella decisione era talmente infondata che, l’anno dopo, il Tribunale supremo federale brasiliano dichiarò illegittimo lo status di rifugiato politico.
Ma, nonostante ciò, Lula nell’ultimo giorno del suo mandato da presidente decise di negare l’estradizione di Battisti sempre con l’argomentazione che in Italia non era garantito lo stato di diritto. Da allora l’ex terrorista ha vissuto da uomo libero fino a quando, dopo la vittoria di Bolsonaro alle elezioni del 2018 venne ordinata l’estradizione di Battisti che, nel frattempo fuggito, venne infine arrestato in Bolivia. Lula si è scusato solo dopo che Battisti ha ammesso i suoi crimini: “Chiedo scusa al popolo italiano, credevo che non fosse colpevole ma dopo la sua confessione posso solo scusarmi”, disse nel 2021 in un’intervista al Tg2 Post. Insomma, Lula si era fidato più della parola di un terrorista che di quella delle istituzioni democratiche italiane. Non si capisce perché ora, nel caso Zambelli, l’Italia dovrebbe fidarsi ciecamente della parola delle istituzioni brasiliane. Tanto più che di dubbi sull’imparzialità della giustizia brasiliana ce ne sono eccome: il caso stesso di Lula, condannato ingiustamente e vittima – come egli sostiene – di un processo politico ne è la dimostrazione. Proprio due giorni fa il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha imposto dazi del 50 per cento sul Brasile sostenendo che il procedimento giudiziario in corso nei confronti dell’ex presidente Bolsonaro sia una “persecuzione politicamente motivata” che ha “minato lo stato di diritto in Brasile”. Lula ha risposto che “in Brasile la magistratura è indipendente”. Ma diceva il contrario quando era lui a essere sotto processo. E, in ogni caso, questo stesso argomento era stato ribadito più volte dall’Italia ma a lui non sembrava sufficiente o credibile quanto la versione di Cesare Battisti. Perché ora l’Italia dovrebbe acriticamente credere alla parola di Lula invece che a quella di Carla Zambelli che, come Battisti, si ritiene una “perseguitata politica”?
Giorgia Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio, per ragion di stato e dignità della nazione, se hanno un po’ di memoria storica, dopo che il Brasile di Lula ha trattato l’Italia come una repubblica delle banane, prima di concedere l’estradizione di Zambelli dovrebbero prendersi tutto il tempo necessario per valutare il rispetto delle garanzie processuali e dei diritti umani nel paese sudamericano. Anche dieci anni. Proprio come ha fatto il Brasile con Cesare Battisti.
