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il caso

Perché la nuova legge sui conti correnti obbligatori non è "un tassello" al diritto di cittadinanza

Andrea Romano

Il ddl sul diritto al conto corrente passa alla Camera con il voto unanime di maggioranza e opposizione. Ma restano esclusi proprio i più vulnerabili: migranti e richiedenti asilo continuano a scontrarsi con banche e burocrazia. Una legge simbolica, che rischia di non cambiare nulla

Un luglio caldo, specialmente sul fronte bancario. Prima la mancata acquisizione di Banco BPM da parte di Unicredit, ora un’altra partita, meno di mercato: il conto corrente diventa, per legge, un diritto garantito a chiunque lo richieda. La Camera ha approvato all’unanimità la proposta che inserisce nel Codice civile l’articolo 1857-bis, obbligando gli istituti ad aprire un conto a chiunque, salvo eccezioni di antiriciclaggio e antiterrorismo, e vietando loro di chiuderlo se il saldo è attivo. Un provvedimento che, almeno in superficie, sembra cucito su misura per quei cittadini evocati nei comizi e nei comunicati: pensionati, risparmiatori, italiani “dimenticati” da banche sempre più digitali e lontane dai territori. Ed è qui che Matteo Salvini, fedele alla sua bolla social, esulta e parla di vittoria per i “cittadini”, come se il decreto fosse stato scritto per loro.

Per il Pd invece, che ha votato a favore come il resto dell'opposizione, si tratta di "un tassello" da aggiungere al diritto di cittadinanza. Perché in realtà, i primi a trarne beneficio dovrebbero essere soprattutto quei cittadini che italiani non sono: richiedenti asilo e titolari di permesso di soggiorno in attesa, che pur potendo per legge (articolo 5, comma 9-bis del Testo unico sull’immigrazione) lavorare e farsi pagare, vengono respinti dalle banche e devono districarsi in un inferno burocratico di circolari e dinieghi mai messi per iscritto. Resta da capire se, con questa legge, la loro condizione cambierà davvero o se finirà per aggiungersi all’elenco dei diritti promessi, ora che la norma viene già salutata come un “diritto di cittadinanza”.

 

"Le tutele esistono già – spiega Maria Paola De Nobili, avvocata specializzata in diritto dell’immigrazione –. Il Testo unico bancario garantisce da anni un conto di base a chi soggiorna legalmente, inclusi richiedenti asilo e persone senza fissa dimora. L’articolo 5, comma 9-bis del Testo Unico sull’Immigrazione, permette di lavorare e ricevere pagamenti anche in attesa del primo permesso. Ma il sistema si blocca su due fronti: le banche che aggirano le norme e le Questure. Ai richiedenti asilo viene spesso rilasciato solo un attestato nominativo, escluso come documento valido dalla circolare ABI del 2019: un limbo che può durare mesi. Agli altri non comunitari, invece, resta la sola ricevuta del primo permesso: abilita al lavoro, ma senza codice fiscale diventa il pretesto con cui le banche negano l’apertura del conto".

 

Il ddl, così com’è, rischia di lasciare buchi normativi: "Primo, perché continua a parlare di cittadini, il che è discriminatorio e anacronistico – continua –. La normativa europea e la stessa ABI già riconoscono il conto di base ai richiedenti asilo. Secondo, perché prevede un diniego scritto, ma non obbliga le banche a formalizzare la domanda. E una banca non è una pubblica amministrazione: può non registrare la richiesta e aggirare l’obbligo. Così i più fragili – non comunitari senza assistenza, magari con difficoltà linguistiche – rischiano di restare esattamente dov’erano".

 

Per De Nobili, la soluzione non è un nuovo ddl: "Serve applicare le norme europee che già esistono. Far rispettare l’articolo 5 comma 9 bis del Testo Unico sull’Immigrazione, e quelle sul conto di base del Testo unico bancario. Obbligare Agenzia delle Entrate e istituti di credito ad adeguarsi, dare linee guida vincolanti. Non serviva un nuovo obbligo di contrarre. È una norma anacronistica e rischia di appesantire il sistema senza risolvere il problema". I proclami, la retorica del “conto di cittadinanza” e persino il consenso bipartisan, fanno parte di una sceneggiatura parlamentare con un copione già visto. 

 

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