L'editoriale del direttore

La deriva gruppettara di una sinistra che regala alla destra il garantismo

Claudio Cerasa

La posizione del campo largo sulla giustizia impone una svolta culturale: separare le carriere tra riformismo di sinistra e masochismo gruppettaro

La notizia dell’imminente voto in Aula, al Senato, del disegno di legge costituzionale numero 1.353, un disegno di legge importante perché contiene la riforma che separa le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, perché contiene la riforma che crea due distinti consigli superiori della magistratura, perché contiene la riforma che disciplina le nuove modalità di elezione dei membri togati del Csm, offre alcuni spunti di riflessione che meritano di essere messi insieme e che ci dicono qualcosa di interessante su tre temi che riguardano il mondo del centrodestra e quello del centrosinistra. Il primo tema fondamentale, politicamente rilevante, è legato a una conferma importante. Il centrodestra ha deciso di inserire la marcia più veloce sui temi della giustizia, e non su altri, con l’obiettivo esplicito di approvare il pacchetto costituzionale entro la fine dell’anno (alla Camera si è già votato in prima lettura) e lasciarsi aperta la possibilità il prossimo anno di celebrare un referendum (senza quorum) che potrebbe aiutare l’elettorato di centrodestra a mobilitarsi, a pesarsi, a misurarsi e a fare le prove generali per le successive elezioni politiche (entro il 2025 si voterà in seconda lettura sia alla Camera sia al Senato, e successivamente all’ultimo voto in seconda lettura sarà possibile convocare un referendum dopo tre mesi, cosa che il governo vuole fare).

Il dato politico è evidente e rilevante: l’unica riforma che il centrodestra considera contemporaneamente identitaria e non divisiva e potenzialmente trasversale è quella che riguarda la giustizia, e l’unica riforma sulla quale può avere senso chiamare gli elettori al voto, prima delle politiche, non è quella che riguarda il premierato, riforma che si farà, certo, ma con la tempistica giusta per arrivare al referendum dopo le prossime politiche, ma è quella che riguarda la giustizia. Il secondo tema politico evidente e rilevante riguarda un tema che costituisce uno dei fili conduttori della legislatura in corso, e che riguarda una dinamica allo stesso tempo interessante e incredibile che il centrosinistra ha scelto di assecondare e persino avallare: impegnarsi in modo costante, coerente e sincero per regalare alla destra battaglie non necessariamente di destra. Negli ultimi tempi, ve ne sarete accorti, il centrosinistra ha offerto e consegnato alla destra battaglie di buon senso come l’attenzione ai conti pubblici, la difesa dell’Ucraina, la lotta contro il regime iraniano, la lotta contro il regime putiniano, la difesa europea, il pragmatismo sui migranti. E la trasformazione delle battaglie garantiste in un asset a uso esclusivo della destra è il riflesso di una tendenza inarrestabile del centrosinistra a trazione Fra.Sc.Co.Bo. (Fratoianni, Schlein, Conte, Bonelli): qualsiasi battaglia politica la destra scelga di portare avanti, quella battaglia non può che diventare una battaglia di destra (Tafazzi ringrazia). E il risultato di questa operazione ha trasformato il campo progressista in un campo che non lotta semplicemente contro la destra ma che lotta anche contro la propria storia (vedi il Jobs Act). L’effetto collaterale di questo processo – ecco il terzo tema – è aver azzerato qualsiasi forma di coraggio all’interno del centrosinistra, qualsiasi desiderio da parte di una qualsiasi componente della coalizione di alzare una qualche bandiera identitaria per non alzare bandiera bianca sui temi di buon senso (o se volete, come si sarebbe detto un tempo, sui temi riformisti). Il centrodestra, negli anni, è riuscito a creare un amalgama piuttosto riuscito, attraverso la combinazione di identità molto distanti l’una dall’altra.


E così facendo ha offerto agli elettori la possibilità di trovare varie ragioni per sentirsi rappresentati. Il centrosinistra, invece, ostaggio di una pulsione gruppettara, movimentista, masochista, ha scelto  di non valorizzare le sfumature all’interno della propria coalizione. E il risultato, sulla riforma della giustizia in particolare, è quello di aver anestetizzato, azzerato, non solo la sua componente interna, la cosiddetta componente riformista, ma è anche quello di aver eliminato qualsiasi forma di coerenza con la propria storia. Non staremo qui a ricordare che un pezzo importante del Partito democratico di oggi un tempo, non  un tempo troppo remoto, quando si ritrovò a votare la mozione di Maurizio Martina, chiese espressamente di lavorare per una separazione delle carriere tra giudici e pm (era il 2019, e la frase contenuta nella mozione era questa: “Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”). Non ricorderemo che a firmare quella mozione fu anche l’attuale responsabile giustizia del Pd, ovvero Debora Serracchiani. Non ricorderemo che tra i firmatari di quella mozione vi erano anche altri senatori del Pd che  con scarso coraggio voteranno contro una riforma della giustizia trasformata dalla sinistra in una riforma della destra senza esserlo (e per carità di patria non faremo i nomi di Graziano Delrio, Simona Malpezzi, Francesco Verducci). Quello che potremmo fare, per provare ad accendere non un voto a favore ma almeno un lumicino di riflessione, è ricordare quanti a sinistra, nella storia recente della nostra politica, hanno ricordato quanto sia urgente, e non di destra, una riforma per separare le carriere di giudici e pm, per evitare ogni confusione tra chi giudica e chi accusa e per rafforzare la terzietà del giudice. Non citeremo Giovanni Falcone per non mettere troppo in imbarazzo i magistrati che urleranno al colpo di stato (“Comincia a farsi strada […] che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti […]. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti […] equivale […] a garantire meno la stessa magistratura”). Potremmo dunque citare Norberto Bobbio, che fu tra i primi a sottolineare i rischi della commistione tra funzione requirente e giudicante, e che disse: “Se il giudice è lo stesso che accusa, non si ha più equilibrio, ma inquisizione”. Potremmo citare Giuliano Pisapia, secondo il quale “il giudice – a garanzia di una corretta amministrazione della giustizia e nell’interesse dell’intera collettività – non solo deve essere – come espressamente previsto dall’articolo 111 della Costituzione – terzo e imparziale, ma deve anche apparire il più possibile equidistante da tutte le parti processuali, pubblico ministero, imputato e parte offesa”. Potremmo citare Giuliano Amato, che più volte ha sostenuto che la separazione delle carriere è “una misura di civiltà giuridica”. Potremmo citare Giovanni Bachelet, che nei primi anni 2000 sostenne che la confusione dei ruoli tra accusa e giudizio comprometteva la fiducia nel sistema.

Potremmo citare il grande Emanuele Macaluso, convinto che “non sia possibile accettare che il pm diventi il dominus del processo e della stampa”. Potremmo citare persino Antonio Di Pietro, convinto che non ci sia alcuna ragione per dire che “con la separazione delle carriere venga a mancare l’indipendenza della magistratura”. Ci si potrebbe ingenuamente stupire di fronte alla mancanza di coraggio della sinistra, e del Pd. Ma nel farlo si compierebbe un errore strategico, e non si capirebbe fino in fondo che in questa assenza di coraggio vi è una totale forma di coerenza della sinistra del presente: fare tutto il necessario per mettere le proprie idee al guinzaglio di una triade spaventosa formata dall’Anm, dalla Cgil e dal M5s. Anche qui, si potrebbe pensare che la scelta, il guinzaglio, sia figlia di una strategia legata alla ricerca del consenso. Sarebbe bello fosse così, sarebbe persino nobile, a suo modo. Ma la scelta deriva da altro. Non deriva dall’algoritmo. Deriva dall’identità. Deriva dall’idea di fare tutto il possibile per trasformare la deriva gruppettara della sinistra italiana nell’unica vocazione del campo largo, oltre naturalmente all’altra grande vocazione perseguita anch’essa con coerenza dall’universo progressista: quella autolesionistica. Provare a separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri è importante, oltre a non essere di destra. Ma visto lo stato attuale del mondo progressista oggi ci si potrebbe accontentare di molto meno: provare a separare le carriere tra riformismo di sinistra e masochismo gruppettaro. 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.