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Il day after del voto
Ricolfi e la lezione del flop referendario, tra Pd, Meloni e centristi
I quesiti, la linea di Schlein, la road map per Meloni, il numero dei votanti come falsa consolazione, il centro in cerca di leader. Parla il sociologo e politologo
E’ il day after del referendum, day after del grande flop. Quale “lezione” ricavare rispetto allo strumento in sé e rispetto alla campagna che è stata condotta (a sinistra e a destra)? “Molte lezioni”, dice il sociologo e politologo Luca Ricolfi: “Primo, di referendum se ne dovrebbero fare al massimo uno ogni cinque anni. Secondo: mai quesiti multipli. Terzo: solo quesiti chiari, su questioni importanti per la maggior parte dei cittadini. Quella di abbassare il quorum, invece, è la lezione sbagliata, come ha spiegato bene Sabino Cassese: non si può consentire che la democrazia diretta espropri quella rappresentativa”.
La linea della segretaria del Pd Elly Schlein – linea spesso sovrapponibile a quella di Maurizio Landini e Giuseppe Conte – è risultata di fatto non vincente, ma Schlein ha rivendicato lo stesso i 14 milioni di voti ottenuti come prova di vitalità del centrosinistra. E’ davvero così? O intanto potrebbe aprirsi una resa dei conti interna al Pd? “Il test del numero di votanti è tecnicamente sbagliato”, dice Ricolfi, “perché assume che a recarsi al voto sia stato solo il ‘popolo di sinistra’. E’ verosimile, invece, che a recarsi al voto sia stato anche una frazione di elettorato che, alle Politiche, voterebbe a destra. Anche il conteggio dei sì ai referendum sul lavoro è sbagliato, perché certamente una parte di quei sì sono semplicemente di matrice sindacale: non lo sanno, i vari Conte-Landini-Schlein, che è dagli anni Novanta che, nelle fabbriche, è comparsa la figura dell’operaio bifronte, che vota Lega con la tessera della Cgil in tasca? I sì al referendum più favorevole alla sinistra sono stati 12,2 milioni, mentre i voti al centrodestra alle politiche sono stati 12,6 (non 12,3 come crede Francesco Boccia, che ha dimenticato di conteggiare Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige). Quanto al referendum più politico e più chiaramente progressista, quello sulla cittadinanza, i sì sono stati appena 9 milioni, 3 milioni e mezzo sotto l’asticella dei consensi al governo Meloni nel 2022. Insomma, la disfatta del centrosinistra è chiara, ma la domanda non è se ci sarà resa dei conti oppure no: la domanda è se la resa dei conti sarà aperta, con un congresso del Pd, o sarà sorda, con il solito stillicidio di veleni”. Il centrodestra, sulla scia del flop degli avversari, può ora sfruttare il vantaggio, ma forse non così a lungo, avendo vari problemi irrisolti, a partire dai difficili equilibri Lega-FdI.
Chiediamo a Ricolfi quale possa essere, a suo avviso, una road map percorribile per la premier. “In teoria Meloni potrebbe ingaggiare”, dice Ricolfi, “sia pure tardivamente, una grande battaglia culturale su scuola, università, merito, demografia, tossicodipendenze, educazione dei giovani, fine-vita. Temo non ne avrà il coraggio, o il tempo, o le risorse umane necessarie. Se vogliamo rimanere nell’ambito delle cose probabili, e non solo possibili, la via maestra l’ha già indicata l’esito del referendum: puntare sulla domanda di sicurezza. Non dicendo ‘guardate come siamo stati bravi, abbiamo ridotto gli sbarchi’, ma riconoscendo che il problema rimane, e chiedendo un secondo mandato proprio per completare l’opera. Del resto c’è un precedente illustre: Tony Blair. Nel 2001, alla fine del suo primo mandato, Tony Blair ammise di non aver mantenuto tutte le promesse e, proprio in nome di ciò, chiese agli elettori di dargli un secondo mandato. E lo ottenne”. I centristi dei due poli hanno provato a differenziarsi (Matteo Renzi votando ovviamente no ai quesiti sul Jobs act, Maurizio Lupi cercando di sottolineare la differenza rispetto agli astensionisti). Ma c’è prospettiva reale per i centristi? E se sì, quale? Ricolfi non la vede: “Il centro liberal-democratico, per contare qualcosa, avrebbe bisogno di un vero leader, capace di suscitare passioni e impegno pubblico, non solo di formulare proposte ragionevoli, piani ben studiati, leggi moderne. Né Calenda né Marattin né Magi né Lupi né Tajani hanno il carisma necessario. Renzi forse lo aveva, ma lo ha sciupato dopo la sconfitta al referendum”.