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I perché del flop

L'affluenza che precipita, il dato delle città: il referendum visto da Ghisleri e D'Alimonte

Marianna Rizzini

D’Alimonte: “Il referendum non funziona più, va ripensato lo strumento”. Ghisleri: “Non basta abbassare il quorum, serve parlare ai cittadini”. Il centrosinistra raccoglie le briciole, il centrodestra scommette sull’astensione. E la partecipazione democratica affonda

L’affluenza che precipita sotto i livelli già bassi precedenti, i quesiti che si arenano attorno al 30 per cento, il leader Cgil Maurizio Landini che parla di “obiettivo fallito” (ma anche di “crisi democratica”), la segretaria del Pd Elly Schlein che conta i voti (“14 milioni, più di quanti ne ha presi Giorgia Meloni alle Politiche”, dice) ma anche i cocci. Al di sopra di tutto, c’è il dato dello strumento referendario che soffre, e più ci si allontana dalle grandi città più la sofferenza aumenta. Perché? E che cosa fare in futuro? Interrogativi simili aleggiano nel quartier generale delle forze politiche di centrosinistra che avevano puntato sulla consultazione. La situazione è senza appello? Chiediamo lumi al politologo Roberto D’Alimonte, docente di Sistema politico italiano alla Luiss Guido Carli. Il giudizio è netto: “Il referendum non funziona più”, dice D’Alimonte. “L’ultima volta che lo strumento ha funzionato era il 2011, sul tema del nucleare, con quorum raggiunto e percentuale di votanti al 57 per cento, sulla scia della paura per l’incidente di Fukushima”. Ma, dice il professore, “dobbiamo risalire ai referendum del 1995 per trovare una percentuale del 76,7 per cento. Un’era geologica fa, e un dato: in questi trent’anni la partecipazione elettorale è calata sempre di più. La distanza dei cittadini continua a crescere, l’astensionismo anche. In questo quadro ci si domanda: come si fa a mantenere la soglia referendaria al 50 per cento? In questo modo, tra l’altro, si dà un vantaggio strutturale ai sostenitori del no, chiunque essi siano – parlo in generale – che così hanno buon gioco nel promuovere il non voto”. Quanto al fatto che nelle grandi città la percentuale dei votanti sia maggiore che in provincia (per non parlare di alcune regioni), è per D’Alimonte una sorta di specchio per il centrosinistra che nelle città va meglio del centrodestra, ma più ci si allontana dai grandi centri più perde quota. “Una fotografia di quello che è accaduto con questo referendum. Da un punto di vista di pura razionalità politica, in questa situazione, il centrodestra ha fatto bene, pro domo sua, a puntare sull’astensione, e credo il centrosinistra avrebbe fatto lo stesso, a parti rovesciate”. La soluzione, per D’Alimonte, potrebbe essere quella di un abbassamento della soglia referendaria al 40 per cento. Ma c’è anche un problema di temi e di momenti: “Quando si vota sull’onda di uno shock, come nel caso di Fukushima, o su argomenti che coinvolgono aspetti fondamentali della vita del cittadino, come fu per aborto e divorzio, o sull’onda emotiva, allora il quorum del 50 per cento è non soltanto raggiungibile, ma ampiamente superabile”. La sondaggista Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia Research, non è d’accordo sulla questione dell’abbassamento del quorum: “Io penso si sia politicizzato uno strumento che servirebbe a decidere altro, dicendo 'votate per noi o contro di noi' e non mettendo al centro l’interesse del cittadino. Sembra che il quadro di disaffezione crescente non insegni nulla a una politica che non aiuta l’elettore a trovare un senso e anzi lo allontana. I quesiti erano complicatissimi. Il centrosinistra ha infatti dovuto mettere in campo tutti i suoi leader per spiegarli, a differenza del centrodestra, con l’eccezione di Noi Moderati, per ragioni ovviamente opposte. In entrambi i casi, la percezione dell’elettore è stata quella di una contrapposizione politica che travalicava la scelta referendaria”. Prova ne è, dice Ghisleri, “il fatto che in Emilia Romagna e in Toscana, dove il centrosinistra è più radicato e sensibile ad alcuni temi, l’affluenza sia stata più alta. Com’era prevedibile la bassa affluenza in alcune regioni dove questo tipo di consultazioni viene più spesso disertata, specie nel Sud e nelle isole. Al di là di questo, è mancata anche, a mio avviso, la comprensione, sul tema del lavoro, del ‘che cosa?’ un certo tipo di tessuto imprenditoriale avrebbe desiderato: era questa la battaglia da fare? Ripeto: per riportare i cittadini alle urne non serve abbassare il quorum, ma parlare di quello che impatta sulla loro vita. Ecco, potrebbe essere questo un tema di riflessione per il futuro”. 

 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.