(foto Ansa)

l'editoriale del direttore

Meloni, Mattarella e gli astri allineati per una svolta sulla giustizia

Claudio Cerasa

Combattere l’irresponsabilità tossica della giustizia modello gogna. Perché serve un patto tra il presidente della Repubblica e la premier

L’allineamento degli astri in teoria c’è e non vederlo sarebbe un delitto. Pensateci. Un presidente della Repubblica che, all’inizio del suo secondo mandato, ha detto in modo esplicito che è necessario lavorare tutti insieme affinché la magistratura capisca che “i cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario”, che i cittadini non devono “avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”. Un capo del governo, che ha trasformato la riforma della giustizia, ovvero il riequilibrio dei poteri tra legislativo e giudiziario, come una priorità assoluta del suo governo, e che crede a tal punto a questa riforma da aver scelto di fare della giustizia l’unica riforma di peso da lasciare sul terreno di gioco, anche a costo di arrivare a confrontarsi con le opposizioni al referendum costituzionale, magari da far cadere dopo le prossime elezioni. Un ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che con coraggio, dall’inizio del suo mandato, denuncia, da pm, lo strapotere assoluto che hanno i pm in Italia, critica la trasformazione dell’Italia in una Repubblica fondata più sulle procure che sul lavoro, tenta di allentare le leve che azionano da decenni quel mostro chiamato processo mediatico. E, contestualmente, un elettorato che in modo trasversale considera una priorità il ridimensionamento degli strapoteri che l’Italia ha regalato in questi anni alla magistratura – poteri che hanno permesso ai magistrati di esondare dai propri argini, poteri che hanno permesso ai magistrati di usare la propria discrezionalità assoluta come una clava per trasformare i teoremi in sentenze a volte senza aver bisogno neppure di prove.

 

Gli astri sono allineati, e persino l’opposizione, conoscendo le posizioni garantiste dei sindaci del campo largo, fatica a trovare una chiave per fare battaglie efficaci su questo terreno, e quando gli astri sono allineati può capitare di ritrovarsi a giornate in cui, seppur nell’indifferenza dell’opinione pubblica, nello stesso giorno si sentono pronunciare discorsi sulla magistratura da brividi, da brividi positivi. E’ stato così, due giorni fa, al Quirinale, quando il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, come riportato ieri dal Foglio, ha detto che “il magistrato non è un’autorità morale del paese”, che il magistrato “non deve mai confondere etica e diritto”, che il magistrato non è “portatore di generali valutazioni sui fenomeni sociali onde correggerli o indirizzarli”, che “la competenza consente al magistrato di resistere ai condizionamenti e alla tentazione di individuare il colpevole prima del giudizio, alla suggestione della giustizia senza processo” e che il magistrato non deve “trasformare l’aula giudiziaria in un luogo di necessario [… e] dovuto riequilibrio fra parte sociale forte e parte sociale debole”. Gli astri sono allineati, come dimostrano anche le parole del capo dello stato di due giorni fa che, di fronte ai magistrati ordinari in tirocinio, ha spiegato, con parole soffici ma concrete, quanto sia importante fare tutto il necessario, whatever it takes, per avere una giustizia in grado di tutelare l’indipendenza e la terzietà dei magistrati.

 

“Giudici e pubblici ministeri – ha detto il capo dello stato – hanno, dunque, il dovere di essere e di apparire – apparire ed essere – irreprensibili e imparziali, in ogni contesto (anche nell’uso dei social media); con la consapevolezza che, nei casi in cui viene – fondatamente – posto in discussione il comportamento di un magistrato, ne può risultare compromessa la credibilità della magistratura”. Nei primi due anni e mezzo di esecutivo Meloni, il percorso sulla giustizia del governo ha avuto due facce diverse. Da un lato, le promesse di buon senso, accompagnate anche da riforme coraggiose come l’abuso d’ufficio (che no, non era incostituzionale: un abbraccio all’Anm), come l’esclusione delle ostatività per i reati contro la Pubblica amministrazione (scelta più garantista rispetto a quella fatta sull’ampliamento dell’uso del trojan anche ai reati comuni aggravati dal metodo mafioso) e come la separazione delle carriere e la riforma del Csm (che saranno il vero test sul coraggio della maggioranza). Dall’altro, le promesse di buon senso annacquate da una forma di riformismo securitario che ha portato incessantemente il governo ad aumentare pene di fronte a ogni fatto di cronaca mediaticamente sensibile (dal suo insediamento, purtroppo, il governo Meloni ha introdotto circa sessanta reati e ha aumentato le pene per un totale di circa 500 anni di carcere in più nel nostro ordinamento). Gli astri sono allineati, per così dire, la credibilità della magistratura ideologizzata è ai suoi minimi storici, l’Anm continua a essere schiava del correntismo anti politico che ha trasformato il sindacato dei magistrati in un’associazione interessata esclusivamente allo status quo, e arrivati a questo punto del nostro ragionamento gli elementi cruciali da mettere a fuoco, che corrispondono a un auspicio, sono due: fare degli ultimi due anni della legislatura Meloni un terreno utile non per sperimentare nuove discipline nelle olimpiadi del populismo penale ma per riuscire a offrire al paese del futuro una garanzia di affidabilità ancora più preziosa della stabilità: una Repubblica fondata più sulla centralità del lavoro che sulla discrezionalità delle procure. Lo spazio c’è, l’occasione è ghiotta. Qualche nemico in procura ci sarà sempre, ovvio, e qualche sorpresa negativa è sempre possibile. Ma se l’Italia perderà l’occasione di non riformare il paese, sulla giustizia, i principali responsabili andranno ricercati tra gli amici delle riforme, non tra i nemici delle riforme. E se Palazzo Chigi e il Quirinale non troveranno una via giusta per spianare la strada a un nuovo riequilibrio di poteri guardandosi allo specchio avranno chiaro a chi attribuire la colpa. Un nuovo ottimismo è possibile sulla giustizia? Forse sì. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.