L'editoriale del direttore

L'antifascismo che avvicina Meloni più a Macron che a Le Pen

Claudio Cerasa

I sospiri di sollievo sulla Francia, i timori per il futuro. Guardi l’Italia, vedi la posizione su Ucraina, Israele, debito, mercato, Europa e atlantismo e pensi che il modello Meloni è più vicino ai nemici di Le Pen che ai suoi amici minacciosi

Guardi la Francia, guardi le elezioni, guardi quei numeri, guardi quel consenso, guardi l’ascesa a metà dei due populismi simmetrici, registri con gioia i sospiri di sollievo generato dalla magia di Emmanuel Macron, ripensi al pericolo scampato e ti chiedi: ma il modello Le Pen, per l’Italia, coincide di più con il nostro passato o con il nostro futuro? Nonostante i risultati a sorpresa di ieri (dio benedica Macron, e anche Mbappé), le possibilità che la traiettoria di Le Pen in Francia e il ritorno del trumpismo in America si trasformino nelle nuove stelle polari della destra italiana sono difficili ma non sono purtroppo remote. E nell’attesa di capire se nei prossimi mesi, forse nei prossimi anni, la traiettoria dell’Italia somiglierà di più a quella dell’Europa (dove gli europeisti hanno trionfato) o a quella della Francia del primo turno (dove Le Pen aveva trionfato, prima di scontrarsi contro un muro chiamato realtà) vale la pena fermarsi un attimo. E vale la pena provare a ragionare su quello che è lo stato del presente, su quella che è la traiettoria imboccata fino a oggi da un’altra destra, quella italiana. Perché la destra italiana un giorno potrebbe somigliare a Le Pen, ma  al momento ha fatto di tutto in due anni di governo per somigliare più ai nemici di Le Pen che ai suoi amici. Al punto da essere diventata, passo dopo passo, nel mondo caotico delle destre europee, un modello inaspettato di un nuovo antifascismo europeo. La destra modello Meloni, tanto per cominciare, non somiglia alla destra modello Le Pen quando si parla di politica estera e non è un tema da poco. Di fronte al fascismo putiniano, per fortuna, Meloni ha sempre fatto tutto il possibile per dare il suo sostegno all’Ucraina, cosa che non si può dire abbia fatto in questi due anni la signora Le Pen, salvo una timida svolta negli ultimi mesi. Di fronte all’atlantismo, Meloni ha sempre fatto tutto il possibile per ricordare che la sua destra considera la Nato un ombrello indispensabile, e verrebbe da dire ci mancherebbe altro, e non si è mai sognata di rimettere in discussione l’appartenenza all’Alleanza atlantica, come ha invece fatto il partito di Le Pen, che nel suo programma elettorale ha proposto di uscire dal comando integrato della Nato. Di fronte alla difesa di Israele, anche qui, Meloni ha mostrato una vicinanza al popolo ebraico non solo per ciò che Israele rappresenta come argine contro il fondamentalismo islamista (linea Le Pen) ma anche per ciò che Israele rappresenta per la difesa della libertà nel mondo (cosa che il lepenismo non arriva a dire). E ancora. Di fronte ai temi legati all’immigrazione, Meloni ha fatto l’opposto di quanto prevede l’agenda Le Pen e piuttosto che chiedere all’Europa di fare di meno ha chiesto con costanza all’Europa di fare di più, chiedendo cioè di aiutare l’Italia a governare l’immigrazione a partire dal Nord Africa, chiedendo cioè alle istituzioni comunitarie di fare passi in avanti nella redistribuzione dei migranti, chiedendo cioè ai vertici europei di aiutare l’Italia a non essere il campo profughi d’Europa. Serve più Europa, dice Meloni.

 

Serve meno Europa, dice Le Pen. Stessa storia sui temi economici. Il programma di Le Pen non prevede una particolare attenzione al contenimento del debito pubblico: un’applicazione alla lettera dell’indicizzazione pensionistica richiesta dal partito di Le Pen costerebbe alle casse francesi circa 27 miliardi di euro nei prossimi cinque anni, mentre al contrario l’azione di governo portata avanti finora da Meloni ha messo al centro il tentativo di limitare la crescita del debito pubblico, e di solito è anche da questi particolari che si giudica quanto un governo sia populista e quanto invece non lo sia. Si potrebbe aggiungere che persino su alcune partite industriali delicate, come Ita e come Tim, Meloni ha fatto scelte che mai avrebbe fatto una Le Pen, e che mai in passato avrebbe fatto anche una Giorgia, nel senso di Meloni all’opposizione. Nel 2013, Meloni, nello stesso giorno in cui l’Italia stava facendo i conti con un’offerta di Air France su Alitalia  e con un’offerta di Telefónica su Tim, scrisse su Twitter: l’Italia sta perdendo Alitalia e Telecom nel vergognoso silenzio del governo. Mai avrebbe detto undici anni dopo che sarebbe stato il suo governo a mettere nelle mani di un fondo americano la rete di Tim e a mettere nelle mani di una compagnia tedesca le rotte di Ita. Una forza politica si può definire antifascista quando sa fare i conti con i propri fantasmi e con le proprie ambiguità. E seppure con un ritardo scandaloso, con la lettera inviata la scorsa settimana ai parlamentari di Fratelli d’Italia la premier ha fatto un passo ulteriore lontano dalla stagione delle ambiguità (in Fratelli d’Italia, ha detto la premier, non c’è spazio “per posizioni razziste o antisemite, come non c’è spazio per i nostalgici dei totalitarismi del ’900”). Ma l’antifascismo del presente non è meno importante per giudicare la capacità di una forza politica di essere una minaccia per le libertà. E se si mette insieme tutto quello che abbiamo detto, la posizione sull’Ucraina, la posizione su Israele, la posizione sul debito, la posizione sull’atlantismo, la non ostilità manifesta nei confronti del mercato, si può dire che mentre siamo qui a guardare la Francia, a guardare le elezioni, a guardare quei numeri, a guardare quel consenso, a guardare l’ascesa dei due populismi simmetrici, possiamo dire che il modello Meloni, per il momento, con il suo antifascismo basato sui fatti, è parente più dei nemici di Le Pen, compreso Macron, che dei suoi minacciosi amici. Guardi la Francia e un po’ tremi e un po’ tiri un sospiro di sollievo. Guardi l’Italia e pensi che anche dove arriva il populismo qualche fiore, a contatto con il concime della realtà, può ancora spuntare. Più Mbappé, meno Le Pen.

 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.