Il presidente del Senato Ignazio La Russa - foto Ansa

Riforma con sbadigli

Il premierato slitta al dopo europee. La Russa: "Poi la tagliola, ma non basterà"

Salvatore Merlo

La discussione della madre di tutte le riforme in Senato va lenta tra ostruzione (poco convinta) e assenze a destra. La promessa di usare il "canguro" anti-ostruzionismo, avanzata dal presidente del Senato per accorciare i tempi. Ma al momento resta solo la noia

Tutto è lecito, certo, per guadagnare tempo. E ancora di più per far saltare i nervi al nemico. Ma qua i nervi non saltano a nessuno. Se non altro perché non c’è nessuno. L’Aula del Senato, in cui si discute la riforma costituzionale del premierato, la madre di tutte le battaglie, quella per la quale Elly Schlein ha promesso che “faremo muro anche con i nostri corpi”, sprigiona una noia di cancelleria provinciale infestata dalle mosche. La maggioranza è pressoché assente. L’opposizione, che pure ha presentato tremila emendamenti, fa ostruzionismo a ranghi ridotti. Solo il presidente del Senato, Ignazio La Russa, in un corridoio, si preoccupa: “Se continuano con questi ritmi, e se mi viene chiesto, dovrò intervenire. Userò il canguro, ma non basterà. L’unica strada sarà quella di dare tempi contingentati”.
 

Il Senato continuerà a lavorare fino a giovedì 30, tuttavia per effetto dell’ostruzionismo dell’opposizione è ormai certo che la riforma non sarà approvata a Palazzo Madama entro le elezioni europee come avrebbe voluto Giorgia Meloni. Lo dice anche il presidente del Senato: “Non ci arriviamo”. Eppure non si registra un particolare allarme nel governo né tanto meno i parlamentari della sinistra sembrano avere la determinazione dei vietcong. Il rinvio della riforma è dato per scontato, con placido fatalismo.
 

Nel piccolo Transatlantico del Senato, la sala Garibaldi, si parla infatti soltanto di Bari, di Forlì, persino di Carrapipi di Sicilia. E insomma la testa di ciascuno è rivolta alla campagna elettorale. Se ci sono occhiaie, sono dovute ai tanti viaggi in automobile, alla polvere dei comizi, alle troppe telefonate fatte e ricevute. Non c’è il film dei vecchi democristiani o dei vecchi comunisti e neppure dei radicali che forse ancora sono gli unici custodi del soffio vitale dell’ostruzionismo. Notti insonni, urla, strepiti, provocazioni, vesciche che esplodono, interventi fiume e cateteri, come quando Marco Boato per annegare la maggioranza nella logorrea riuscì a parlare ininterrottamente per diciotto ore e cinque minuti. Niente di tutto questo. In un angolo ecco Stefano Graziano e Walter Verini, del Pd. Di che state parlando? “Di Atalanta-Bayer Leverkusen”. Dagli scranni semivuoti dell’Aula arrivano brandelli d’interventi. Allarmi recitati. Parole eccessive, forse, ma comunque pronunciate senza troppa convinzione. Peppe De Cristofaro, di Sinistra italiana, parla di “sovversivismo delle classi dirigenti”. Tatjana Rojc, del Pd, invita i colleghi della destra “a servire le istituzioni e  non servirsi di esse”. Ma se il premierato è la grande minaccia allo stato democratico, ecco, non si avverte né la determinazione del governo nel proseguire né tantomeno l’afflato resistenzialista della sinistra a contrapporsi.
 

Sarà forse perché tutti hanno già capito che la riforma slitta. Chissà. “Io volevo finire prima delle elezioni europee”, dice il presidente del Senato La Russa. “Ma è chiaro che non ce la si può fare”. Dopo le europee si potrà misurare quanto Meloni intende spingere, e quanto la sinistra intende resistere. “Se me lo chiederanno userò il canguro”, dice allora La Russa riferendosi a quel meccanismo che taglia il numero degli emendamenti. “Ma non basterebbe. Da tremila diventerebbero mille. Ancora troppi”. E allora? “E allora l’unica strada è un contingentamento dei tempi. Si arriva col dibattito fino a certo punto, ma poi si taglia, e si vota”. Ma sono proiezioni battagliere sul futuro. Per adesso restano gli sbadigli biblici del Senato. Resta l’opposizione che mima l’antica arte del perdere tempo, dell’emendare per impantanare. E resta il fatto che la maggioranza nemmeno c’è, in Aula.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.