L'intervista

"La ministra Bernini, su Israele, deve prendere posizione. Negli atenei mollezza dei docenti". Parla Della Loggia

Carmelo Caruso

"Dire parole chiare e in alcuni dimettersi per reagire al boicottaggio contro Israele nelle università. Non si può esporre la bandiera di chi ha assassinato il 7 ottobre". La versione dello storico

Roma. Ernesto Galli della Loggia, cosa pensa del “boicottaggio” universitario contro Israele? “Che ci sono momenti della storia in cui un rettore, un direttore, dovrebbe riscoprire l’istituto delle dimissioni. Ci sono momenti in cui un ministro dell’Università, come in questo caso, dovrebbe dire parole precise. La nostra ministra Anna Maria Bernini non può stare in un cantuccio.  Un ministro dell’Università ha il dovere di entrare nel discorso pubblico, offrire un punto di vista chiaro. Non abbiamo che farcene di un ministro dell’Università che non prende posizione”. Da storico, editorialista del Corriere della Sera, per lei è “normale” che a Pisa, alla Normale, si chieda di rompere i rapporti scientifici con Israele? “Non è normale, e mi sconvolge la mollezza, il cedimento del corpo accademico alla massa studentesca che promuove tesi velate di antisemitismo”. Si può definire “eccellenza” un’università che si chiude, che chiede al ministro degli Esteri di interrompere gli scambi con Israele? “Io non mi preoccupo della definizione di eccellenza. Il problema non è l’eccellenza di un’università, ma quello che accade all’interno”. Cosa le ricorda? “Nel 1933 Heidegger venne eletto rettore a Friburgo con un consenso di colleghi e studenti. Le università furono essenziali a nazificare il paese”. Cosa nasconde il boicottaggio contro Israele? “E’ un fenomeno che si propaga. E’ un movimento già presente in America e in Inghilterra. In tutto l’occidente c’è un condizionamento oggettivo del mondo arabo”. Quali sono le università dove il pensiero occidentale si è compromesso? “Oxford e Cambridge sono finanziate da soggetti islamici e in queste università si rompono i rapporti con Israele. E’ un sentimento, una moda dove confluisce il vecchio anti occidentalismo. Non si crede più nella propria cultura”. Una delle richieste dei vari senati accademici è di esibire la bandiera palestinese fuori dalle università. Lei la lascerebbe esporre? “Mi limito a ricordare che degli assassini, avvolti in quella bandiera, il 7 ottobre, hanno ucciso civili inermi”. Va esposta? “Non si può dire esponiamo quella bandiera. La gravità di quei fatti dovrebbe suscitare come minimo ripulsa”. Cosa le suscitano i senati accademici, i ricercatori, i docenti che accomunano Israele alla politica del suo governo? “Che quella che chiamiamo élite, dispiace dirlo,  ha una scarsa conoscenza storica dei fatti”. E’ ignoranza? “E’ un’assoluta ignoranza del passato. Buona parte del corpo accademico non sa nulla del passato di Israele, non sa nulla della storia di quel paese. Sono professori che si sono arresi che hanno smesso di resistere”.


A Pisa, gli amici della Normale, gli ex allievi, hanno parlato di “sconcerto” per la decisione di “riconsiderare” i bandi scientifici con atenei israeliani. Sabino Cassese, che ha letto quei bandi, spiega al Foglio che non hanno nulla a che vedere con progetti bellici, e che riguardano solamente, ottica, scienza della terra. Della Loggia, perché parla di resa del corpo accademico? “Ho ascoltato in radio uno studente di Torino, all’apertura dell’anno accademico, ed  ero sconvolto”. Cosa diceva? “Parole inaudite, aberranti, su Israele. Erano più che altro dei balbettii, ma sul piano politico erano parole esplosive. Erano parole che avrebbero dovuto provocare, quantomeno, la protesta del corpo accademico presente. Non mi risulta che qualcuno abbia protestato”. Non era anche quella un’opinione? “Lo era ma doveva  generare una rivolta, la difesa di certi standard di civiltà. E’ quella resistenza di cui parlo che a Pisa e Torino non registro. Un tempo, quelle parole, come si diceva nel Pci, sarebbero state occasione di un’ampia e profonda discussione. E invece solo mollezza, cedimento. Si seguono le masse studentesche che sono quasi sempre, va detto, minoranze attive che però incidono. Mi sorprende in questi senati accademici l’assenza di divisione interna”. Ci sono gli amici della Normale, ma esistono “amici di Israele” tra gli studenti? “Mi colpisce che tra gli studenti non ci sia una protesta in senso contrario. Il discorso pubblico è purtroppo occupato da una sola posizione. E’ monocorde. E non si riesce a riequilibrare”. E’ ancora, e sempre, 1968, lo stesso clima? “A differenza di adesso, nel 1968, ci fu una chiusura massiccia da parte del corpo accademico. Il clima è quello, ma queste associazioni di studenti, non hanno professori che resistono, e dunque affondano come coltello nel burro”. L’università è ancora il rifugio degli uomini di pensiero? “Il ruolo dell’università sta cambiando e con essa cambia, non solo in Italia, la prevalenza della cultura alta”. Tra gli “Amici della Normale”, dell’associazione, ci sono Enrico Cucchiani, Salvatore Rossi, Giuliano Amato, Alberto Quadrio Curzio, i soli che hanno sollevato la questione di Pisa. La resistenza la faranno gli ex allievi? “Sono molti gli italiani  in disaccordo con quanto accade nelle università, che non accettano la mollezza. Mi sembra che perfino il direttore della Normale, Luigi Ambrosio, faccia parte dell’Associazione degli amici della Normale. Il contrasto mi sembra chiaro. Da una parte la decisione del Senato accademico e dall’altra la nota dell’Associazione. Ebbene, non si può stare con l’Associazione e nello stesso tempo con il senato accademico. Lo trovo bizzarro. Ecco perché sono a favore della riscoperta di quel sano istituto”. Le dimissioni? “Le dimissioni. E’ un istituto che oggi andrebbe rivalutato. Bisognerebbe riscoprire il coraggio di dire ‘non ci sto’. Riguarda rettori, politici, ministri”. Anche i ministri? “E’ in questi casi che ha un senso avere al governo un ministro dell’Università. Altrimenti perché nominarlo? Serve un ministro che non cincischia. Un ministro interviene con parole precise. Torino, Pisa, cosa si aspetta ancora? E’ il momento di parlare e con parole che devono avere peso”.

Carmelo Caruso

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio