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il personaggio

Cuor di Speranza, il candidato mancato per la Basilicata

Salvatore Merlo

Chino nel suo studio, l’ex ministro non cercava la biro bensì un alibi per non correre alle elezioni regionali. Il principio è questo: se un posto non è sicuro, va rifiutato

Appena arrivato a Roma dalla sua Basilicata, quasi vent’anni fa, Roberto Speranza prese una casa in affitto con altri ragazzi. Nella sua cameretta da studente, avendo egli le idee già chiare, teneva un poster. Non di Anna Falchi in costume da bagno, bensì di Sandro Pertini in grisaglia nello studio del Quirinale. Tanto che all’appello, già ai tempi della scuola, si racconta ironicamente che mentre gli altri alunni rispondevano “presente” lui già diceva: “Presidente!”. E dunque come abbiano potuto immaginare, Giuseppe Conte ed Elly Schlein, che egli, il presidente appunto, una volta conquistata la capitale d’Italia si sarebbe voluto candidare tra i sassi di Matera per fare il governatore della Basilicata, sua terra di origine, rischiando per giunta di perdere, resta un mistero. “Io gioco in nazionale e mi volete far tornare in serie B”, è la frase apocrifa (e smentita).  D’altra parte, pure alle politiche, Speranza era stato eletto in Campania, con i voti di Vincenzo De Luca, mica in Basilicata con i voti suoi. Secondo un principio assai in voga tra i “nobili” della politica (e Speranza essendo il figlioccio di un “padre nobile” della sinistra, cioè di Massimo D’Alema, si sente un po’ “figlio nobile”).

Il principio, dicevamo, è questo: se un posto non è sicuro, va rifiutato. Il che significa, ovviamente, che l’idea di persuadere degli elettori incerti con i programmi non gli passa neppure per la testa. Eppure per dieci giorni, dalle Alpi al Lilibeo e forse dal Manzanarre al Reno il bisogno di Speranza a sinistra, per così dire, si era fatto struggente. Anche i vegliardi, anche gli infanti, si sentivano fermare per la strada e chiedere: “Ci serve un candidato in Basilicata, lei è Roberto Speranza?”. “No, signore”. “Peccato”, e il corteo si ingrossava cammin facendo.

Fatto sta che domenica, il centrosinistra, coalizione di costumi non diciamo facili, ma di certo arrendevoli, ha rinunciato definitivamente alla speranza di avere Speranza. Malgrado un ultimo appello di Pierluigi Castagnetti: “La generosità è un prerequisito della classe dirigente. A questo punto non c’è altri che Speranza”. Il quale, nel frattempo, tuttavia, veniva visto aggirarsi per il suo studio a Roma, curvo e assorto, non in cerca della biro, ma in cerca di un alibi. Ed ecco come, tanti anni prima, lo aveva presagito Alessandro Manzoni,  chiamandolo però don Abbondio. Sentite, e dite se non è lui: “Affannato e balordo, si ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nelle ossa, si guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa: ‘Perpetua’”. Naturalmente Speranza non ha chiamato “Perpetua!”, ma ha chiamato: “Bersani”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.