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l'editoriale del direttore

Perché il 2023 è stato un anno bellissimo (o quasi)

Claudio Cerasa

Doveva essere un anno di recessione, spread impazziti,  borse al collasso,  disoccupazione, risorse  perdute. E invece no. Cosa ci dicono i numeri del 2023 sul governo Meloni, sulla forza dell’Ue e sulle sfide dell’anno che verrà

Doveva essere un anno drammatico, almeno dal punto di vista economico. Doveva essere un anno di recessione galoppante, di spread impazziti, di borse al collasso, di disoccupazione folle, di investimenti al palo, di inflazione incalzante, di risorse europee perdute. E invece, volgendo il nostro sguardo ai dodici mesi che ci lasciamo alle spalle, in un giorno carico di ottimismo grazie alla scelta quasi contemporanea della Banca centrale europea e della Federal Reserve americana di non alzare i tassi di interesse, possiamo dire che l’anno economico dell’Italia è stato decisamente diverso rispetto a come molti osservatori lo avevano previsto. Nel novembre di un anno fa, il responsabile del dipartimento europeo dell’Fmi, Alfred Kammer, disse che nell’inverno successivo “più della metà dei paesi nell’area euro sperimenterà una recessione tecnica, con almeno due trimestri consecutivi di crescita negativa”. Fra i paesi che secondo Kammer sarebbero inevitabilmente scivolati in recessione tecnica vi erano Germania e Italia, “che avranno tre trimestri consecutivi di contrazione a partire dal terzo trimestre del 2022”. A dicembre del 2022, l’agenzia di rating Standard & Poor’s prevedeva “una lieve recessione in Italia il prossimo anno, con una contrazione del pil dello 0,1 per cento”. Nello stesso mese, alcuni importanti fondi di investimento, come Kairos, prevedevano per i mercati in Italia “dodici mesi di incertezza”. E anche alla luce di questi dati si può capire perché buona parte degli italiani, immaginando l’anno nuovo, difficilmente riusciva a sentirsi ottimista. Secondo un sondaggio diffuso da Ipsos alla fine del 2022, in quel momento dell’anno il 78 per cento degli italiani pensava che l’inflazione del 2023 sarebbe stata più alta rispetto al 2022 e credeva che la disoccupazione del 2023 sarebbe stata più alta rispetto all’anno appena trascorso.

 

Un confronto utile e più ordinato tra ciò che sarebbe dovuto accadere e ciò che è davvero successo lo si può ricavare mettendo a confronto quello che l’Istat diceva nel dicembre del 2022 e quello che invece dice oggi. Un anno fa l’Istat prevedeva una crescita del pil per il 2023 pari allo 0,4 per cento. Oggi l’Istat dice che la crescita del 2023 sarà almeno dello 0,7 per cento. Un anno fa l’Istat prevedeva un rallentamento rispetto al 2022 dei consumi delle famiglie. Oggi l’Istat dice che i consumi del 2023 saranno tre volte superiori alle previsioni (+1,4 per cento contro una stima precedente di più 0,4 per cento). Un anno fa l’Istat prevedeva un rialzo del tasso di disoccupazione nel 2023 (8,2 per cento). Oggi l’Istat dice che alla fine dell’anno la disoccupazione italiana sarà inferiore al 2022 (7,6 per cento, contro l’8,1 per cento di dodici mesi fa). Aggiungiamo a tutto questo che Piazza Affari ha recentemente toccato i 30.000 punti, registrando un più 25 per cento rispetto all’inizio dell’anno e arrivando ai massimi dal 2008. Aggiungiamo a questo che le rate del Pnrr, nonostante qualche ritardo, sono arrivate regolarmente a destinazione. Aggiungiamo a tutto questo che le esportazioni delle imprese italiane, secondo Sace, supereranno il record del 2023 arrivando a quota 660 miliardi di euro (più 6,8 per cento rispetto allo scorso anno). Aggiungiamo a tutto questo che entro pochi giorni il ministero dell’Economia annuncerà un numero record relativo al gettito derivante dall’azione di contrasto dell’evasione fiscale (superiore ai 20,2 miliardi del 2022). Mettiamo in fila tutti i puntini e avremo di fronte a noi alcune riflessioni inevitabili.


Primo: l’anno che doveva essere drammatico, disastroso, letale per l’Italia non è stato così solo perché l’Eurozona ha mostrato più anticorpi del previsto (grazie anche a una crescita dell’economia americana superiore alle attese) ma anche perché l’Italia ha trovato la forza per smentire le previsioni catastrofiche (cosa che per esempio non è capitata alla Germania, che pur avendo avuto meno problemi rispetto alle previsioni del 2022 è uno dei grandi paesi europei che effettivamente ricorderanno il 2023 come l’anno in cui, come da attese, sono finiti in recessione). Secondo: qual è la ragione per cui l’Italia di Meloni è andata meno peggio rispetto a come sospettavano, e forse speravano, i suoi avversari (la nostra economia va peggio di quella della Francia e della Spagna ma meglio rispetto a quella della Germania e dell’Olanda)? Per rispondere a questa domanda vi è un elemento che prevale su tutti e coincide con tutto ciò che i sovranisti hanno spacciato per molti anni come il virus e non il vaccino dell’Italia: l’Europa. E’ grazie all’azione saggia della Bce, e non grazie al fantomatico carrello tricolore di Adolfo Urso, se l’inflazione è scesa più del previsto nel 2023. E’ grazie soprattutto agli investimenti concordati con l’Unione europea attraverso il Pnrr se la crescita italiana è stata superiore alle attese. E’ grazie all’internazionalizzazione delle imprese italiane e alla loro capacità di fare del mercato europeo una fonte di opportunità e non di paura se l’occupazione italiana è cresciuta più del previsto. E’ grazie alla continuità euroatlantica mostrata da Meloni – e grazie alla contestuale discontinuità con il passato messa in campo dalla destra di governo – se l’Italia è riuscita a smentire molte previsioni negative sul suo futuro. Il necessario per non sperperare il patrimonio di affidabilità conquistato in questi anni dall’Italia è stato fatto, numeri alla mano, e in questo senso la sfida dei prossimi mesi per Meloni & Co. sarà quella di dimostrare che un governo solido, senza avversari, senza ostacoli, senza nubi eccessive all’orizzonte, avrà la capacità non solo di restare all’interno dei binari ma anche di correre. Sul primo punto si può essere ottimisti, sul secondo un po’ meno. Ma sul 2023 i numeri parlano chiaro: se non è stato un anno bellissimo ci manca poco.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.