Politiche da fiaba

Francesco Palmieri

Fra i personaggi da accostare ai leader, Pinocchio è il più gettonato. Poi gli orchi e le principesse. Viaggio fatato da Togliatti a Meloni

   

“Pulce sapeva che spesso gli adulti darebbero ‘non so cosa’ per rimediare a pasticci che potevano evitare dando molto meno”

(S. C. Perroni, “La bambina che somigliava alle cose scomparse”).

 

Alice, Bella addormentata, Cenerentola, il Drago, gli Elfi. E continua, continua fino alla Zeta, se c’è. Ma c’era una volta e ci sarà per molte l’alfabeto delle fiabe e del contiguo genere del fantasy (magari tolkieniano), perché serve da sempre alla politica italiana. Per bollare avversari, per sminuirli o esagerarli con caratteri attinti al mondo dell’immaginario infantile. Bruno Bettelheim, controverso ma autorevole psicoanalista, raccomandava di non smettere troppo presto di raccontare fiabe ai bambini per evitare un precoce impatto “con la cruda realtà”. La dialettica politica rivela che per istinto molti genitori seguirono il consiglio, perché i loro figli poi divenuti deputati, ministri o capi di partito con le favole hanno dimestichezza e vi fanno frequente ricorso.

  

Renzi ha replicato alla premier che lei non è Cenerentola né la Bella addormentata. Chi s’appella al patrimonio fiabesco si fa capire subito


Nell’ultimo question time a Palazzo Madama il leader di Italia viva, Matteo Renzi, ha replicato alla premier Giorgia Meloni ricordando che lei non è Cenerentola né la Bella addormentata e nemmeno Biancaneve: tre archetipi che tutti, dentro e fuori ai palazzi, possono associare a tipici comportamenti senza bisogno di precisazioni. Chi s’appella al patrimonio fiabesco ha il vantaggio di essere compreso subito perché quei protagonisti sono immortali e universali. Facilmente perciò si trascorre da narratore a personaggio: giusto un anno fa, ospite di un talk-show, proprio a Renzi fu chiesto chi tra lui e Carlo Calenda fosse il Gatto e chi la Volpe, perché il segretario di Azione se n’era andato a incontrare la presidente del Consiglio per discutere della manovra di bilancio. La replica di Renzi fu su chi fosse la fatina, poiché tra i tanti ruoli ascrivibili alla premier questo sembra improbabile e invece ha sempre incuriosito il senatore. Si ripesca da Google un suo incontro al Salone del Mobile del 2016 con il regista Matteo Garrone, che gli disse scherzando: “Sembri un po’ Pinocchio”. Lui, allora presidente del Consiglio, replicò: “L’importante è capire chi fa la fatina, magari la Ronzulli”, forse associando l’esperienza infermieristica della forzista all’amara medicina che la bambina dai capelli turchini volle somministrare al burattino.

  

    

È proprio il personaggio immaginato da Carlo Collodi centoquarant’anni fa il più evocato nel circuito della politica. Si può affermare che non ci sia stato nessuno, tra i segretari di partito e gli inquilini di Palazzo Chigi, a restare esente dalla comparazione. Quasi obbedendo alla curiosa profezia di mastro Geppetto (“questo nome gli porterà fortuna”, e che fortuna), Pinocchio assurse a premier nelle vesti di Prodi secondo una caricatura della Casa delle libertà nel 2006. Poi in quelle di Enrico Letta come sentenziò Beppe Grillo nel 2013. Pinocchio fu appellato Matteo Renzi e lo fu Silvio Berlusconi – che è stato comparato quasi a tutto. Pinocchio fu Giuseppe Conte ma con un tocco in più di folklore parlamentare, quando i senatori della Lega portarono in aula il pupazzo del burattino e si passarono tra gli scranni un disegno dell’avvocato col celeberrimo naso, costringendo la presidente Elisabetta Casellati a sospendere la seduta. Come tanti Lucignolo in classe. Era il dicembre 2019 però già l’anno prima, commentando l’asimmetrico curriculum contiano, Francesco Merlo lo aveva “politicamente” definito “il burattino che non riesce a diventare Pinocchio”, “il professore delle mezze misure spacciate per intere”.

  

Contro Giuseppe Conte, i senatori della Lega portarono in aula il pupazzo del burattino. La presidente Elisabetta Casellati sospese la seduta

  
Si diede da fare, s’era ancora nel primo gabinetto giallo-verde, persino lo street artist Tvboy che realizzò nel centro di Roma, in vicolo della Torretta, un murale che effigiava Conte-Pinocchio tra il Gatto e la Volpe nelle sembianze dei vice premier Luigi Di Maio e Matteo Salvini (che a sua volta ha impersonato il burattino in altre circostanze).

  

Il murale di Tvboy nel centro di Roma, in via della Torretta 
   
La rodata coppia di animali potrebbe lusingare chiunque sia chiamato a emularla in virtù di illustri, precedenti incarnazioni. Le censì lo storico Stefano Pivato, già rettore dell’Università di Urbino, in un saggio del 2015 intitolato Favole e politica: per i polemisti democristiani furono Gatto e Volpe, all’esordio degli anni 60, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, che illudevano i più improvvidi elettori col miraggio di un Kolkhoz dei miracoli quinquennali. “Volpe per antonomasia” fu Giulio Andreotti, abbinato di volta in volta a vari gatti dalla carriera politica meno fulgida e longeva della sua.

 
Superfluo precisare chi sia stato, non foss’altro che per nome, il Grillo parlante negli ultimi anni, il quale avendo “peggiorato l’Italia” per sua stessa recente ammissione darebbe ragione a Pinocchio, che nel romanzo collodiano lo spiaccicò con una tempestiva martellata. Ma per i Cinque stelle i riferimenti fiabeschi sbocciano in molte storie fatate. Con Alessandro Di Battista, alla ennesima rivendicazione di purezza (“i nostri politici sono brave persone in una vasca di squali”), Lilli Gruber sbottò: “Se siete come Alice nel paese delle meraviglie non vi candidate a governare”. Il romanzo di Collodi ha tuttavia prevalso anche per loro, con un primato riferibile sempre al paradigma di Geppetto allorché battezzò il ciocco di legno: “Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi”. I pentastellati hanno difatti contato tra le fila anche una Pinocchia: Virginia Raggi sindaca di Roma fu rappresentata con il telescopico naso di legno dai militanti di Fratelli d’Italia. Quel giorno del 2017 li capeggiava una Meloni ancora molto minoritaria per una protesta in Campidoglio contro l’assegnazione di case alle famiglie rom.

  
Ma giustappunto Giorgia, nel diorama fiabesco, chi è? Bisogna chiederlo all’antropologo Marino Niola, che commenta fino al 29 dicembre le fiabe raccolte da Italo Calvino nel programma “L’Italia è una favola”, venti puntate su Rai Radio 3 Suite: “Giorgia Meloni è un personaggio mimetico, che può ben impersonare ma senza esserlo sia la Bella addormentata sia Cenerentola, o forse più Calimero quando si lagna perché ce l’hanno tutti con lei. Però la vedo anche un po’ Cappuccetto Rosso in occasione di certi contesti politici internazionali, quando stimola quasi un senso di protezione, sarà forse per la statura minuta. All’opposto c’è Guido Crosetto, che ha una imponenza orchesca ma è l’orco buono: conscio di un corpo così eccedente si muove con una sua grazia delicata, come chi abbia paura di far male agli altri”.

   

I baffi di Stalin si prestavano all’assimilazione con “una tradizione favolistica nella quale un’abbondante peluria copre il viso del ‘cattivo’”

   
E’ l’orco un’altra figura fondamentale, anche se oggi un po’ desueta nella fiaba politica ma assai presente finché c’erano i comunisti quelli veri. Almeno sui manifesti della Democrazia cristiana, dove Stalin era effigiato quale “Orco (o Gatto) baffone”. Osservò il professor Pivato: “Nelle caricature e nella satira di segno anticomunista, quei baffi smisurati bene si prestano all’assimilazione con una tradizione favolistica nella quale un’abbondante peluria copre il viso del ‘cattivo’: dal Barbablù di Perrault all’orco di Pollicino al Mangiafuoco di Collodi”. L’incubo dell’orco mangiabambini fu enfatizzato nel Dopoguerra dal timore che i piccoli rampolli delle povere famiglie meridionali, ospitati provvisoriamente nelle case dell’Emilia-Romagna, non fossero più restituiti o gli tagliassero – girava questa voce – le dita delle mani e dei piedi. Una storia dell’orrore che le più recenti vicende di Bibbiano hanno fatto riemergere da quell’immaginario collettivo in cui i comunisti percepivano l’odore delle tenere carni, anche grazie alla narice in più che Giovannino Guareschi attribuiva ai compagni.

  
Ci furono poi i “compagni che sbagliano” che s’incaricò di traslare nelle fiabe Edoardo Bennato, già autore del vendutissimo lp “Burattino senza fili” del 1977 ispirato a Pinocchio. Con l’album del 1980 “Sono solo canzonette”, il cantautore napoletano si spostò su Peter Pan dedicando alcuni brani ai “cattivi maestri” e ai loro seguaci. “Nel covo dei pirati”, “Dopo il liceo che potevo far” e “Il rock di Capitan Uncino”: “Io sono il professore della rivoluzione / Della pirateria io sono la teoria / Il faro illuminante. / Ma lo capite o no? Ve lo rispiegherò / Per scuotere la gente, non bastano i discorsi / Ci vogliono le bombe”. Si usciva dal tunnel degli anni di piombo, tra mitragliette Skorpion e chiavi inglesi, quando anche le favole viravano nel bianco e nero facendo rimpiangere Peppone e Don Camillo. Ma fu quello anche il periodo in cui la fantasia di Tolkien sedusse i giovani di destra: il primo Campo Hobbit si tenne nel 1977. Gli orchi e i mostruosi Uruk-hai sostituivano nell’immaginario dei militanti quelli del Dopoguerra filiati da Stalin. Una matrice differente, ma la metafora restava più o meno la stessa.     

  
Lontani nel tempo e vicini dentro, perdurando ancora la Guerra fredda, erano gli anni in cui l’orco sovietico “Baffone” s’era incorporato nella declinazione nostrana di Palmiro Togliatti. Che orco non fu solo per gli avversari. Replicando allo scrittore Elio Vittorini, che rivendicava l’autonomia della cultura dalla politica, il segretario del Pci ne ribadiva invece la subalternità ma promettendo che si sarebbe trasformato in “un orco meno cattivo”. Vittorini, sempre con citazione fiabesca, aveva infatti proclamato sul Politecnico di non voler diventare “il pifferaio” della rivoluzione.

  
Stessa fiaba, “Il pifferaio di Hamelin” trascritta dai fratelli Grimm, rispuntò in tempi più vicini con tutt’altri personaggi. Nel gennaio 2013 Mario Monti, premier uscente e sfibrato leader centrista, lanciò un frontale attacco a Silvio Berlusconi: “Mi ricorda il pifferaio magico che incanta i topini”, e confessò di esserne rimasto “illuso” addirittura lui una prima volta. Risentita e ironica risposta del Cavaliere, il quale espresse il timore che Monti “voglia tassarmi anche il piffero”.

    

Pinocchio prevale “perché è l’emblema stesso della politica che senza la bugia non può esistere, essendo per natura l’arte della dissimulazione”

  
“Il costante ricorso della politica alle fiabe”, dice Marino Niola, “non dipende soltanto dal loro fortissimo richiamo immaginale, ma anche perché sono il catalogo di tutte le tipologie umane e i loro richiami possono essere capiti da qualsiasi elettore, a differenza delle metafore poetiche e dei riferimenti letterari fruibili solo dal pubblico più colto”. Pinocchio prevale su tutte le altre storie “perché è l’emblema stesso della politica che senza la bugia non può esistere, essendo per natura l’arte della dissimulazione. Non è in politica che si trova la verità, ma se non altro gli appelli fiabeschi la rendono un po’ più piacevole”.

  
Chissà se sarebbe d’accordo Raffaele La Capria, che aggettivò Pinocchio come “l’italianissimo”, “l’unico vero, grande, e più completo personaggio della nostra letteratura”. Con avventure, personaggi e luoghi da metafora collettiva, per cui il Paese dei Balocchi è quello “dove si passa il tempo a non far nulla, tra fannulloni che vogliono solo divertirsi, e che soprattutto non vogliono mai lavorare”. E il Campo dei Miracoli è simbolo psicologico di chi s’illude “che da un momento all’altro tutto possa cambiare in meglio a causa di un evento improbabile che non abbiamo né preparato né contribuito a fare accadere con la nostra operosità e il nostro lavoro”. Continuando con righe come queste lo scivolone nel moralismo ci bracca a ogni capoverso, quindi ci fermiamo prima: magari al cospetto dell’algido Mario Draghi ancora governatore della Banca d’Italia, perché finì anche lui a far da Pinocchio secondo il quotidiano tedesco Handelsblatt (agosto 2011). Proprio per avere dichiarato nei mesi precedenti, alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, che “l’Italia non è un paese a rischio finanziario”. Ci fermiamo sì, anche perché ci crescerebbe il naso a consacrare quale autobiografia dell’italianità il libro di Collodi. Se è il più tradotto al mondo dopo la Sacra Bibbia questo è piuttosto segno che le avventure del burattino smuovono sentimenti più universali che nazionali, come per ogni rispettabile fiaba dai tempi del diluvio e al netto di coloriture storiche o geografiche.


Con buona pace della stampa germanica don Benedetto Croce, che pure talvolta aveva ragione, la ebbe certamente quando scrisse: “Il legno, in cui è tagliato Pinocchio, è l’umanità”.

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