Ansa

La riflessione

Melonidi e napoleonidi, storia parallela di due corti al potere

Fulvio Abbate

Come Bonaparte anche la premier va immaginata nell'intento di superare le Alpi e il Gran San Bernardo circondata dai suoi fidati aiutanti di campo e marescialli

Come Napoleone Bonaparte, anche Giorgia Meloni, plebiscitariamente giunta al più alto scranno del governo, nonostante gli alamari conquistati in anni di battaglie politiche, temo sia percepita tra i “parvenu”. Assente alla pienezza dei veri quarti di nobiltà. La funerea Fiamma e non l’Aquila lucente e dorata, a velarne la legittimazione totale e del tutto plebiscitaria, lì nel suo blasone. Un limite comunque colmato dall’acclamazione popolare e soprattutto populista conquistata alle urne con un partito decisamente di destra, almeno inizialmente “cadetta” nella percezione comune. Nome e insegne semanticamente, cerimonialmente patriottici: Fratelli d’Italia. Giorgia dunque, sia pure a suo modo, come Bonaparte dopo la vittoriosa campagna d’Italia: capitano, generale, primo console e poi, su, su, fino all’incoronazione imperiale magistralmente raffigurata da Jacques-Louis David. Anche lei, Meloni, va appunto immaginata nell’intento di superare le Alpi e il Gran San Bernardo dell’agognato regno iniziale; gli aiutanti di campo, fidati marescialli, La Russa e soprattutto Crosetto, quest’ultimo in imponente uniforme da ussaro, al suo fianco, mostrati di profilo come già i vincitori di Austerlitz e Jena. 

La vittoria cui consegue l’intronizzazione nei “parvenu” si accompagna infatti per assioma storico al senso di solitudine e ai timori d’assedio nella convinzione d’inaffidabilità del personale di corte rimasto lì residente per contratti pregressi, nonostante il sovrano nuovo insediato. Per queste problematiche ragioni, Meloni, allo stesso modo di Napoleone, ha ritenuto opportuno, dal giorno dell’ingresso a Palazzo, affidare titoli istituzionalmente neo-nobiliari a figure a lei prossime, direttamente o per traslato parentale consanguinee: concedendo appunto ai famigliari fidenti i vicereami ministeriali. Certo, restando all’iconografia napoleonica è arduo sovrapporre in dissolvenza incrociata l’icona del cognato maresciallo condottiero Gioacchino Murat, a suo tempo nominato re delle Due Sicilie da Bonaparte, alla fototessera da Annuario parlamentare di Francesco Lollobrigida, posto che questi mostra invece un’allure debolmente marziale, semmai burocratica. A suo modo, dalle trincee rigogliose del ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, così ribattezzato con categorie “pompier”, anche il marito della sorella Arianna lo si può immaginare munito di sciabola, giù dal passante del blazer “Davide Cenci a Campo Marzio”. 


Allo stesso modo dei napoleonidi, anche i melonidi stanno avendo cura di completare i quarti dei propri stemmi familiari con figure di provata affidabilità bellico-strategica, in caso contrario non troveremmo proprio Arianna, Sorella Maggiore, al comando della Grande Armata “per il tesseramento, capo della segreteria politica del partito e responsabile adesioni”, assai più di ciò che venne invece concesso a Paolina, rappresentata da Canova come “Venere vincitrice”, nonostante il fratello la soprannominasse “Notre-Dame des colifichets”, nostra signora degli orpelli. Arianna, no, anche quando si mostra in sella a uno scooter, casco omologato tricolore, idealmente è come se indossasse l’elmo modello “Minerva” dei dragoni. Di Napoleone, morto cinque anni prima dell’invenzione della fotografia, possediamo unicamente dipinti e miniature, al contrario del fratello Girolamo, il cui ritratto dagherrotipo, dunque pienamente fotografico all’albumina, fa dire a Roland Barthes: “Questi occhi hanno visto l’imperatore”. Di Giorgia Meloni e della sua “corte” possediamo invece ogni genere di scatto e selfie, lì a testimoniare, almeno al momento, i giorni del dominio, se poi il progetto di premierato dovesse andare a buon fine, si potrà infine immaginarla in posa equestre, magari sul cavallo che attualmente ospita quell’altro al Vittoriano. Ma neppure la “pizzata” finale, terminale, dell’intera famiglia inizialmente esiliata all’Elba può essere esclusa.