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l'intervento

Nessun dorma con il Pnrr. Smettiamo di farci del male

Renato Brunetta

Il Piano è il grande assente nel dibattito pubblico sulla Finanziaria, eppure sta avanzando. La rimodulazione proposta dal governo e i 105 miliardi da incassare nei prossimi due anni  e mezzo

Forse non è colpa di nessuno, se non dei tempi difficili e un po’ caotici che stiamo vivendo. Ma c’è un grande assente nel dibattito pubblico sulla legge Finanziaria di queste settimane in cui tutti lamentano l’esiguità delle risorse che il governo stanzia per questa o quella area di intervento: il Pnrr. Giorni di confronto per discutere come redistribuire poco più di 14 miliardi, peraltro presi a debito e a caro prezzo sui mercati finanziari, e nessuna parola su come utilizzare al meglio oltre 100 miliardi di fondi disponibili sostanzialmente negli stessi ambiti di cui si sta discutendo: sanità, politiche sociali, ambiente, energia e investimenti delle aziende. Come se il Pnrr fosse un manufatto estraneo alla politica economica del nostro paese.

 

Eppure, il Piano sta attualmente avanzando con alcuni sviluppi significativi. All’inizio dello scorso ottobre, l’Italia ha ricevuto il pagamento della terza tranche, pari a 18,5 miliardi di euro, portando il totale delle risorse finora incassate a 85,4 miliardi di euro. Durante l’estate, il governo ha inoltre già rendicontato la richiesta per ottenere la quarta rata e, contemporaneamente, ha richiesto a Bruxelles una revisione importante di 57 dei circa 300 interventi del Piano. La richiesta è attualmente in fase di esame da parte della Commissione europea. Questa revisione mira a semplificare il Piano nel suo complesso, con l’obiettivo chiaro di accelerare l’attuazione delle misure, concentrandole maggiormente sulla transizione climatica ed energetica. A titolo di esempio, il governo ha proposto un nuovo credito di imposta per favorire la transizione verde delle imprese (Industria 5.0) per oltre 6 miliardi di euro, ulteriori 2 miliardi a supporto delle filiere strategiche per le “net zero technologies” e un potenziamento degli investimenti sulle smart grids. E’ stata  invece mantenuta la gran parte delle altre iniziative del Pnrr legate alla digitalizzazione e alla semplificazione della Pa e del sistema sanitario, al sostegno del sistema scolastico (dagli asili ai programmi di ricerca) e delle politiche attive del lavoro, allo sviluppo delle reti ferroviarie ad alta velocità, solo per citare gli interventi maggiormente rilevanti.


Il governo ha  richiesto  a Bruxelles una revisione importante di 57 dei circa 300 interventi del Piano


Certo, attuare il Pnrr in un paese caratterizzato, come l’Italia, da strutturali difficoltà nella realizzazione degli investimenti pubblici non è semplice, e le vicende della terza tranche evidenziano la difficoltà delle sfide amministrative e tecniche che occorre affrontare. La richiesta della rata, del valore complessivo di 19 miliardi di euro, era stata presentata dal governo nel dicembre 2022 ma ci sono voluti quasi sette mesi per vederla approvata dalla Commissione, a causa di lunghe, forse eccessive, procedure di verifica dell’effettivo conseguimento di alcuni degli obiettivi concordati. Ad esempio, l’obiettivo legato alla costruzione di nuove residenze per studenti è stato considerato raggiunto solo in parte dalla Commissione, perché mentre il governo contabilizzava la disponibilità di posti letto per studenti in foresterie private come “nuova capacità”, la Commissione aveva esplicitamente richiesto nuove residenze gestite direttamente dalle università. Questa discrepanza di interpretazione degli accordi ha comportato per l’Italia una riduzione di 500 milioni di euro dall’importo originario della rata, risorse che saranno trasferite una volta che saranno effettivamente rese disponibili le nuove residenze. 

 

Questo esempio esemplifica il paradigma di funzionamento della Recovery and Resilience Facility (Rrf), il dispositivo finanziario che sta alla base del Piano. Esso introduce nella Pubblica amministrazione delle logiche gestionali più orientate al risultato rispetto ai tradizionali programma di spesa presenti negli altri fondi europei. Il suo processo di rendicontazione e audit non si concretizza, infatti, nella semplice spesa effettuata, come avviene tipicamente per gli altri fondi (ad esempio quelli strutturali), ma nell’effettivo conseguimento di obiettivi precisi legati a progetti specifici, stabiliti da un vero e proprio contratto sottoscritto tra lo stato membro e la Commissione europea, secondo un cronoprogramma operativo-finanziario e una puntuale destinazione delle risorse. Ogni sei mesi, la Commissione europea verifica il conseguimento degli obiettivi previsti dal cronoprogramma. Solo dopo questa verifica la Commissione eroga le risorse come concordato. Al centro di questo processo ci sono gli Operational Agreements (Accordi operativi) che ciascuno stato membro ha siglato con la Ce, con valutazioni trimestrali per monitorare l’andamento dei Piani nazionali. Il Pnrr italiano prevede la realizzazione di quasi 300 iniziative o “misure” da conseguire entro il 2026, ciascuna delle quali è associata a una o più traguardi (milestone) e obiettivi (target), per un totale di 527. Le milestone sono valutate qualitativamente e di solito riguardano l’approvazione di misure normative o amministrative, spesso legate a riforme. I target, invece, vengono monitorati tramite indicatori quantitativi, come ad esempio il numero di posti letto nelle nuove residenze studentesche, e sono in genere legati agli investimenti. Il Piano italiano prevede un totale di 213 milestone e 314 target.


Si rivede il Piano per semplificarlo e accelerare le misure su transizione climatica ed energetica


Tuttavia, dall’anno scorso, gli Accordi operativi hanno subito diverse revisioni negli stati membri, principalmente a causa dei cambiamenti significativi nel panorama geopolitico ed economico. Nel caso dell’Italia, la terza relazione semestrale sul Pnrr, pubblicata alla fine di maggio 2023, ha individuato 118 misure che stanno affrontando difficoltà attuative. Queste difficoltà sono dovute a ostacoli di diversa natura, come problematiche normative, amministrative e di gestione, oltre alla necessità di rivedere alcuni degli accordi operativi iniziali a causa di definizioni poco chiare o precise; queste tipologie di difficoltà sono tipicamente risolvibili in maniera abbastanza semplice, per esempio mediante una ridefinizione formale degli obiettivi. 57 misure sono però state classificate come caratterizzate da “difficoltà oggettive”, principalmente dovute ai cambiamenti nel panorama geopolitico durante gli ultimi due anni, che hanno portato a un aumento dei costi di realizzazione degli investimenti, alla scarsità di materiali e a interruzioni delle forniture. Il valore di tali misure si avvicina ai 95 miliardi di euro, quasi la metà del totale dei fondi stanziati per l’Italia dalla Rrf. Di conseguenza, è diventato imprescindibile rivedere il Piano, seguendo l’esempio di quanto fatto da altri paesi che stanno affrontando difficoltà simili. Inoltre, nel corso del 2023, tutti i Piani nazionali hanno dovuto considerare l’iniziativa REPowerEU, introdotta dalla Commissione europea nel 2022 con l’obiettivo di accelerare l’indipendenza energetica della Ue dalla Russia e di promuovere la transizione ecologica. 

 

In dettaglio, la revisione propone di eliminare dal Pnrr nove investimenti, del valore complessivo di circa 15,9 miliardi di euro, equivalente a circa l’8 per cento dell’intero piano. Questi investimenti comprendono varie iniziative, tra cui interventi mirati alla valorizzazione territoriale e all’efficienza energetica nei Comuni (per un totale di 6 miliardi), progetti di rigenerazione urbana (3,3 miliardi) e piani urbani integrati (2,5 miliardi). E’ importante notare che la rimozione dal Pnrr di queste iniziative non comporta però l’eliminazione dei progetti stessi. Questi saranno infatti finanziati attraverso fonti di finanziamento nazionali alternative, in parte legate ai fondi strutturali dell’Unione europea. Ciò permetterà di estendere i termini  entro i quali gli interventi vanno eseguiti (dal 2026 al 2029) e di ridurre i vincoli, molto stringenti, associati agli Accordi operativi.
Sfruttando i dati resi pubblici attraverso ReGiS, la piattaforma ufficiale di monitoraggio e rendicontazione del Pnrr, il Pnrr Lab dell’Università Bocconi ha esaminato la natura dei singoli progetti all’interno della proposta di definanziamento di tali misure. E’ interessante notare come la dimensione media dei progetti associati a queste misure sia limitata, attestandosi a circa 370.000 euro, a fronte dei circa 780.000 euro di dimensione media dei progetti Pnrr. Questi dati evidenziano, dunque, l’esistenza di una frammentazione significativa delle risorse assegnate alle singole misure per le quali è stata proposta la cancellazione. Un elemento, quello dell’eccessiva parcellizzazione progettuale, che potrebbe aver causato ritardi nell’attuazione dei progetti e difficoltà nella loro implementazione, giustificando quindi la decisione di rimuoverli. I dati, in particolare, evidenziano che, attraverso la revisione del Piano, oltre 2.000 Comuni (su un totale di circa 7.600 per i quali sono disponibili dati sul numero di dipendenti, ovvero circa il 96 per cento della totalità dei comuni italiani), vedranno una diminuzione dei finanziamenti legati al Pnrr per dipendente, passando da oltre 100.000 euro a meno di 25.000 euro.


Le vicende della terza tranche evidenziano la difficoltà delle sfide amministrative e tecniche che occorre affrontare


Nella proposta del governo al vaglio della Commissione i risparmi di 15,9 miliardi derivanti dalla rimodulazione si sommeranno ai 2,8 miliardi di prestiti aggiuntivi messi a disposizione dall’Unione europea nell’ambito dell’iniziativa REPowerEU. Questo importo sarà ulteriormente integrato da un contributo più cospicuo dell’Ue basato sulle linee guida di stanziamento del Pnrr, pari a 150 milioni di euro e dai fondi delle politiche di coesione per il periodo 2021-2027, di circa 450 milioni. Il totale consolidato di 19,3 miliardi di euro sarà destinato a nuove iniziative del REPowerEU, legate ad una accelerazione della transizione verde. In particolare, le nuove misure si suddividono sostanzialmente in tre aree principali: reti di trasporto elettriche e del gas (2,3 miliardi), transizione verde ed efficienza energetica (14,8 miliardi) e supporto alle catene del valore (2,1 miliardi). 
In attesa di capire quanto della proposta di rimodulazione del governo sarà approvata dalla Commissione, il punto politico da ribadire è che per l’Italia restano da incassare circa 105 miliardi di euro nei prossimi due anni e mezzo, oltre alle risorse del Fondo complementare (però sono risorse da bilancio nazionale), pari a circa 30 miliardi di euro e usati ad oggi solo in parte. Sono risorse a disposizione del paese, perché il Pnrr è di tutti: del governo Conte 2 che lo ha impostato, del governo Draghi che lo ha negoziato e avviato e del governo Meloni, che lo sta portando avanti, aggiornandolo rispetto al mutato quadro internazionale. Per questo il Pnrr deve essere un’occasione bipartisan di crescita, sviluppo, e credibilità.


Il Pnrr è strumentale per garantire la sostenibilità nel lungo periodo del nostro sistema paese


Con le sue nuove modalità di gestione degli investimenti pubblici, che introducono un’ottica gestionale legata ai risultati, e non più soltanto alla spesa, e con il legame imprescindibile tra investimenti e riforme, che quegli stessi investimenti devono sostenere, il Pnrr è uno stress test virtuoso per il nostro sistema burocratico e amministrativo. Un sistema che deve imparare a ragionare pianificando l’uso delle risorse per obiettivi di lungo termine, identificando traguardi intermedi di verifica e interrogandosi sul gap di risorse necessario, di volta in volta, a raggiungere quegli obiettivi. E’ peraltro anche questo il senso della riforma della governance fiscale europea attualmente in discussione tra le capitali: pianificazione della spesa, rispetto a piani di quattro o sette anni legati ad un calendario di investimenti e riforme. Implementare il Pnrr vuol dire, dunque, reimpostare il nostro sistema di governance degli investimenti pubblici già in quell’ottica, più moderna ed efficiente.

 

Il Pnrr, infine, è strumentale per garantire la sostenibilità nel lungo periodo del nostro sistema paese. Nelle ultime stime programmatiche del governo, i tassi di crescita nominale del pil (crescita + inflazione) sono in discesa nell’orizzonte temporale di riferimento: +3,9 per cento nel 2024, +3,4 nel 2025 e +3,2 nel 2026. Ma il valore al 2026 risulta molto vicino, se non addirittura inferiore, al costo medio del debito pubblico nei prossimi anni, aprendo dunque possibili interrogativi sulla stabilità del debito. Anche per questa ragione, risulta fondamentale massimizzare l’impatto sulla crescita degli investimenti che dovrebbero essere realizzati tramite il Pnrr. Perché, se la riforma del Patto di stabilità e crescita (Psc) deve avere un senso, è giusto che trovi un equilibrio tra i due sostantivi che danno luogo, appunto, al suo nome: stabilità da una parte e crescita dall’altra. Se le soglie famigerate del 3 per cento riferito al deficit e del 60 per cento riferito al debito, con tutti i relativi percorsi di rientro secondo previsti percorsi, rappresentano l’asse della stabilità, le riforme e gli investimenti previsti nei Piani nazionali non possono che rappresentare la crescita. E senza crescita, inutile ricordarlo, non esiste stabilità delle finanze pubbliche. Per questo, come corollario, non si può che affermare che la revisione del Pnrr e la riforma del Psc rappresentano le due facce di una stessa medaglia, quella della nuova governance economica europea. 

E se su tutte queste consapevolezze la smettessimo di farci inutilmente del male, facendo, invece, il tifo una volta tanto, per l’Italia?

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