Tra frasi fatte e parole d'ordine

Il dibattito sulla riforma istituzionale è ben peggio della riforma

Raffaele Romanelli

Lo slogan “rafforziamo il capo” alimenterà una lettura tutta ideologica del progetto. E c’è da scommettere che l’opposizione griderà anche questa volta, e ancor più di prima, al pericolo fascista

Per garantire al governo maggiore incisività ed efficacia operativa, si potrebbe cominciare col domandarsi perché difetti di quelle encomiabili virtù. Per il momento, si propone l’elezione diretta del presidente del Consiglio, con alcuni correlati marchingegni. E’ un sistema che ha scarsi esempi nel mondo, ma perché no. Serve intanto a metter d’un canto il presidenzialismo, istanza dirigista che ha una lunga storia ed è molto amata a destra, ma per il momento sarebbe impopolare. Si parla allora di premierato, dal francese, o meglio dall’inglese premier, e l’anglismo allude al sistema di quel paese, dove vari complessi fattori storici fanno del premier una figura centrale del governo.

 

Altrove operano altri meccanismi, come la sfiducia costruttiva nel cancellierato tedesco, per non dire del granitico mandato del presidente americano o del duopolio della repubblica francese, che funziona se funziona, tutti ruoli comunque incastonati nel quadro di complessi sistemi di controlli e contrappesi riguardanti capo dello stato, governo, ministri, parlamento, sistemi elettorali e così via. Ma non ci incartiamo in tecnicismi. Ci sarà tempo per farlo. Vero è che i tecnicismi dovrebbero essere il fondamentale patrimonio di saperi di un legislatore costituente, ma è un patrimonio che da qualche tempo cede a più rapidi slogan.

 

Ora, alla buona, e senza riflettere su sessant’anni di insuccessi riformatori, si pensa che occorra infondere energia nel comando centrale. L’idea non è nuova. Si può anzi dire che risalga agli albori del regno d’Italia, e che tocchi un nodo costitutivo del paese: dopo l’imprevisto prodigio militare dell’unificazione tutti i leaders successivi hanno dovuto fare i conti con la difficoltà di tenere insieme territori, interessi, valori molto disomogenei. Il parlamento, dicevano gli inglesi inventando il sistema parlamentare a metà Settecento, non è un congresso di ambasciatori di interessi diversi e ostili, ma costituisce il paese, lo conduce ad unità. Oggi in Italia, in ispecie da quando si è anchilosato il sistema dei partiti, sembra proprio che il Parlamento sia un congresso di ambasciatori rissosi, dove grida gente del sud e gente del nord, pensionati e balneari, tassisti e imprenditori, partite IVA ed evasori, giustizialisti e garantisti, centralismi e autonomie.

 

In questo contesto, i governanti sono sempre stati incerti tra il cerchio e la botte, tra il bastone e la carota, ma inclinando più a distribuir carote, perché il bastone non piace e per di più ha scarsi effetti. Perfino Mussolini non ha, come ambiva, raddrizzato la schiena agli italiani né ha reso efficace la “macchina imperfetta” dello Stato. Più che di decisionismo, i migliori governanti italiani hanno allora dato prova di capacità di mediazione. Ne dette prova Cavour, detto il tessitore (fortunato lui che l’Italia l’ha fatta, ma non l’ha dovuta governare) e poi a seguire i vari Depretis o Giolitti: capaci sì, ma anche coperti di insulti, quegli insulti rilanciati da Mussolini, vantandosi di poter ridurre quell’aula sorda e grigia a bivacco per i suoi manipoli. Un vaffa ante litteram. Ci sono insomma fondate ragioni storiche se la figura del presidente del Consiglio nasce debole già nel testo costituzionale. Ma per innovare – cosa sempre possibile – bisognerebbe conoscerle. Capendo tra l’altro che oggi il premier non è più così debole; tra regolamenti parlamentari e uso delle decretazioni ha in capo l’attività legislativa. Capendo, inoltre, che la stabilità dell’esecutivo di per sé serve a poco.

 

Tranquilli, dicono a ogni stormir di foglia, il nostro è un governo di legislatura. Li abbiamo già avuti governi di legislatura, ad esempio con Berlusconi, che ha fatto tante cose – per lo più a favore suo e dei suoi, alimentando la frammentazione e l’inefficienza complessiva del sistema. Un dettaglio. Slogan e parole d’ordine servono poco, non aiutano a aggiornare il catasto, rispondere alle direttive europee sui litorali, dotare le città di adeguati servizi di trasporto, tenere in piedi il sistema sanitario, sostenere le pensioni, ridurre l’evasione fiscale e il debito pubblico, sapere spendere i soldi europei. Ma in questo caso, data l’origine politica di Meloni, lo slogan “rafforziamo il capo” alimenterà una lettura tutta ideologica del progetto. E c’è da scommettere che l’opposizione griderà anche questa volta, e ancor più di prima al pericolo fascista, proclamando la difesa della costituzione più bella del mondo in un inutile crescendo di bolle di sapone.

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