Lavoratori in difficoltà

Sinistra Marchionne: il Pd licenzia e la Cgil usa il Jobs Act

Alessandro Luna

Il Partito di Elly Schlein è costretto a convertire in esuberi le circa 90 persone in cassa integrazione, mentre il sindacato di Maurizio Landini liquida il suo storico portavoce usando la legge di Renzi che tanto contestava

E’ la sinistra Marchionne: casse integrazioni che diventano esuberi e licenziamenti sfruttando le leggi renziane. A un primo sguardo disattento qualcuno potrebbe pensare che questa vicenda riguarda un imprenditore senza scrupoli alla Elon Musk, che diventa il nuovo proprietario di Twitter, arriva in ufficio e fa fare gli scatoloni a metà dipendenti, o un feroce amministratore delegato degli anni 2010, che in barba a sindacati e lavoratori coi megafoni schierati davanti ai cancelli della fabbrica firma le liquidazioni. Invece, in questo settembre che si lascia l’estate militante, la lotta per il salario minimo e le feste dell’Unità alle spalle, a ringraziare e salutare alcuni dei propri dipendenti saranno il Partito democratico di Elly Schlein, forse nel suo momento più “di sinistra della sua storia”, e la Cgil.  

Domenica, Massimo Gibelli, storico portavoce del principale sindacato italiano, ha raccontato sull’Huffington Post di essere stato liquidato il 4 luglio per “giustificato motivo oggettivo”, una formula prevista dalla riforma Fornero prima e dal Jobs act di Renzi poi. Entrambe leggi, contestatissime, negli anni dalla stessa Cgil, con tanto di comunicati e manifestazioni di piazza. Nel frattempo, il Partito democratico si trova a dover affrontare la situazione dei circa 90 dipendenti per cui la cassa integrazione scade a ottobre. Sembra che buona parte di loro sarà licenziata: il tesoriere del Pd Michele Fina nel rendiconto 2022 ha scritto che “è intenzione del partito individuare accordi con le parti sociali per gestire l’esubero. Certo, se fra queste parti sociali dovesse esserci anche la Cgil, sarebbe ironico.  Il sindacato di Landini si troverebbe a suggerire a Schlein, sulla base della propria recente esperienza, l’uso del Jobs Act per liberarsi dei dipendenti, visto che la segretaria del Pd ha proposto proprio qualche settimana fa un referendum per abolirlo. La questione è grave e urgente, ma non si può certamente imputare alla nuova leader che, come i suoi dirigenti tengono a ripetere ai giornali, “sta cercando di risolvere la situazione che ha ereditato”.

E in effetti quella dei cassintegrati del Pd è una lunga storia che inizia con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti decisa dal governo Letta nel 2014, che ha colpito le casse di un partito che veniva dalla fusione di due esperienze, e quindi di due apparati composti da lavoratori che non si potevano lasciare a casa. E’ diventata poi più acuta recentemente con la caduta del governo Draghi. Ventiquattro dipendenti in cassa integrazione erano infatti stati ricollocati nei ministeri assegnati a esponenti del Pd. Dopo la nascita del governo Meloni sono dovuti tornare al Nazareno con la scadenza degli ammortizzatori sociali sempre più vicina e ormai dietro l’angolo. Insomma, sembra una di quelle storie alla Ansaldo in cui la parola esuberi rimbomba nelle mail e nelle chat dei dipendenti, che un tempo avrebbero trovato quasi automatico rivolgersi a Pd e Cgil, difensori del lavoro dignitoso e arcinemici dei licenziamenti.

Un paradosso che può far sorridere ma che riguarda le vite di quasi un centinaio di persone, che, a venti giorni dal termine ultimo della loro cassa integrazione, ancora non sanno da dove e se arriverà il loro prossimo stipendio e in che maniera le loro famiglie potranno affrontare il 2024. Parte del problema sta anche nel fatto che il Partito democratico deve avviare i colloqui con diversi tipi di sindacati, dal momento che i quasi novanta cassintegrati sono inquadrati in professioni molto diverse: alcuni di loro sono giornalisti, altri consulenti, altri dirigenti. Alcuni addetti alla sicurezza. Il mese prossimo, chissà.
Alessandro Luna

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