(foto Ansa)

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L'altro generale. Pappalardo prima di Vannacci

Maurizio Stefanini

Dall'operazione tuono per arrestare Mattarella al movimento anti lockdown e no vax. La biografia degli eccessi di un ex ufficiale dei Carabinieri

Tesi, antitesi, e sintesi? Il colonnello Rambaldo Buttiglione, che inizia nel 1970 a fare le sue stralunate telefonate alla radio, è un personaggio immaginario. Ma ispirato, per lo meno nel nome, a un personaggio vero. Il generale Antonio Pappalardo, presidente del Cocer dei Carabinieri e deputato e sottosegretario, è un personaggio vero. Ma nel momento in cui prova ad arrestare il presidente Mattarella, propone di curare il Covid con lo yoga, pubblica un libro il cui testo dice che glielo ha consegnato un alieno e compone oratori in onore di Madre Teresa di Calcutta, inizia a sembrare un personaggio inventato. Il generale Roberto Vannacci è pure lui, come generale dei paracadutisti, un personaggio vero. Ma al contempo è diventato scrittore di successo: inventato da qualcuno?   

Ideato e interpretato da Mario Marenco per l’allora trasmissione di culto “Alto gradimento”, Buttiglione continuerà fino al 1976 a chiamare  ossessivamente Renzo Arbore e Gianni Boncompagni: pensando che sia la fureria, e ignorando qualunque risposta gli venga data e che possa mettere in dubbio questa certezza. A metà di questi sei anni, dal 1973 inizia ad apparire in film, dove diventa anche generale. Ma pure in quel 1973 esce “Vogliamo i colonnelli”: un film in cui il classico plot di Mario Monicelli su un gruppo di sprovveduti alle prese con una vicenda più grande di loro dopo i ladri dei “Soliti ignoti”, i soldati della “Grande guerra” e i crociati dell’“Armata Brancaleone” passa di mano a una trama di golpisti e politici di estrema destra. Anch’essa immaginaria, ma un po’ ispirata fin nel titolo al regime militare greco, che si immagina mandare ad assistere i congiurati il  colonnello Andreas Automatikos; e un po’ accennante ai falliti golpe De Lorenzo del 1964 e Borghese del 1970. O forse su quanto se ne era immaginato, più ancora che saputo. 

Attenzione, però, che anche un generale Buttiglione era esistito veramente. Giovanni, comandante generale della Guardia di Finanza tra il 1969 e il 1972, nonché zio di Rocco,  e superiore di uno zio di Marenco che appunto ufficiale della Guardia di Finanza era di mestiere. Insomma, quando tra 1979 e ’80 il personaggio tornò in radio, per evitare rimostranze si decise di promuoverlo non solo di grado, ma anche di recipiente: da Colonnello Buttiglione a Generale Damigiani. 

Antonio Pappalardo, si ricordava, è invece un personaggio vero, nato a Palermo il 25 giugno 1946; congedato nel 2006 dall’Arma dei Carabinieri con il grado di generale di brigata; presidente del Cocer della stessa forza armata dal 1988 al ’91. Ma con una biografia dagli eccessi così estremi, che davvero potrebbe essere uscita da una commedia all’italiana. 

Sottosegretario con un personaggio istituzionale per eccellenza come Carlo Azeglio Ciampi, ad esempio. E anche in un incarico a sua volta istituzionale come le Finanze: esattamente: per 16 giorni, dal 6 al 22 maggio 1993. Ma 28 anni dopo promotore di una Capitol Hill de’ noantri per arrestare Mattarella. Una “Operazione Tuono” con cui il 20 ottobre 2021 convocò il popolo a piazza San Giovanni alle 14 per andare ad ammanettare il presidente della Repubblica, reo di aver imposto in Italia la “dittatura del Green pass”. Compimento peraltro di un percorso per cui nel 2011 aveva promosso il Movimento dei Forconi per togliere la sovranità al Parlamento e “riconsegnarla al popolo italiano”; il 14 dicembre del 2016 un gruppo di attivisti degli stessi Forconi aveva provato ad “arrestare” il deputato di Forza Italia Osvaldo Napoli, appunto per “usurpazione di potere politico”;  e poi nella primavera del 2020 aveva indossato un giubbottino arancione fosforescente per riunire migliaia di persone tra Milano, Bologna e Roma a lanciare la protesta contro il lockdown. Il movimento dei Gilet arancioni, dichiaratamente ispirato ai Gilet gialli francesi. Ma a San Giovanni si presentarono in pochissimi, e Mattarella è ancora al Quirinale.

Quella dell’arresto fai da te è peraltro una sorta di fissazione, visto che in seguito Pappalardo ha più volte minacciato di arrestare poliziotti che cercavano di fermarlo. Per questo “merito” il 19 gennaio 2022 Giuseppe Cruciani alla “Zanzara” lo propose come “candidato alla Presidenza della Repubblica”: “così, altro che divertimento”! Il bello è che Pappalardo dal 23 aprile 1992 deputato lo era diventato grazie a un pezzo di pentapartito relativamente tranquillo e scolorito come il Psdi, apposta per la notorietà avuta al Cocer. E il mancato arrestatore di presidenti e parlamentari da sottosegretario fu rimosso per colpa della sbornia di giustizialismo da Tangentopoli. L’11 maggio 1993, esattamente cinque giorni dopo l’ingresso nel governo,  il tribunale militare di Roma lo condannò infatti a otto mesi di reclusione, per il reato di diffamazione nei confronti dell’allora comandante generale dei Carabinieri Antonio Viesti. Ad avviso dello stesso inquisito per una sua dichiarazione al Gr1 in cui affermava che “il comandante generale dell’Arma non può essere più scelto dai partiti”. “Scalfaro, su pressione di Ciampi, presidente del Consiglio, mi invitò a dimettermi dall’incarico di sottosegretario di stato alle Finanze”, raccontò Pappalardo. “A che cosa si è ricorso per farmi fuori! Quella volta scesero in campo, come ho detto, il capo dello stato e tutta la sinistra. Scalfaro mi chiamò al Quirinale per convincermi a dimettermi e poi mi disse che, pur avendo ragione, dovevo inghiottire il rospo”. Da qui probabilmente l’animosità verso gli inquilini del Quirinale, anche perché in seguito la condanna venne ridotta a tre mesi dalla corte militare di appello della capitale il 19 ottobre 1994 e infine cassata senza rinvio dalla Corte di cassazione il 2 dicembre 1997 con la motivazione che “il fatto non costituisce reato”.

Peraltro, già prima di diventare sottosegretario ed ancora parlamentare socialdemocratico nel marzo del 1993 Pappalardo aveva costituito un suo movimento politico “Solidarietà democratica”, con cui si candida a sindaco di Pomezia: ottiene il 13 per cento, sufficiente a essere eletto consigliere comunale. Il 21 novembre sempre come Solidarietà democratica si candida a sindaco di Roma, due mesi dopo aver abbandonato il gruppo parlamentare socialdemocratico per iscriversi al gruppo misto. Ma stavolta si ferma allo 0,55 per cento, nel clima del grande scontro tra Rutelli e Fini. A dicembre passa al Patto Segni, che lascia a febbraio quando non viene ricandidato. Alle Europee del 1994 corre come indipendente in Alleanza nazionale: non è eletto. Alle politiche del 1996 ottiene dall’Ulivo il collegio maggioritario di Chieti: perde, pur arrivando al 43,5 per cento.  

Pur tornato ormai alla vita militare, la vocazione politica non demorde. Il 13 maggio del 2001 a Taranto si candida al Senato con la Lega d’Azione meridionale dell’imprenditore televisivo Giancarlo Cito. Bocciato. Il 25 maggio è capolista alle Comunali di Roma con il movimento Popolari europei. Si ferma allo 0,15. Il 24 giugno si candida alle regionali in Sicilia nella circoscrizione di Catania con la lista Biancofiore, promossa da Salvatore Cuffaro. Altra bocciatura. Nel 2007 è nominato all’interno della direzione nazionale del Partito dei Socialdemocratici: tentativo di rinascita del Psdi, guidato da Franco Nicolazzi. Lo stesso anno fonda anche il Supu: Sindacato unitario dei pensionati in uniforme. Nel 2008 nuova candidatura al Senato, in Abruzzo, Puglia e Sicilia: con il Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo, ma di nuovo non viene eletto. In compenso, a luglio diventa membro del consiglio di amministrazione della Stretto di Messina S.p.A.. Il 30 ottobre 2011 annuncia la candidatura a sindaco di Palermo, con il Melograno mediterraneo. Ma la lista è  esclusa dalla commissione elettorale comunale, per documentazione presentata oltre i termini stabiliti. Intanto è iniziata appunto l’epopea dei Forconi, che nel 2016 sui articola in Movimento liberazione Italia. Alla testa un comitato di 12 saggi, con presidente lui. Nel 2019 fonda i Gilet arancioni, con cui si candida a presidente dell’Umbria. 587 voti, 0,13 per cento. Nel dicembre del 2020 i Gilet arancioni aderiscono a un Movimento Italia libera, assieme a Forza nuova e ad altri nemici di mascherine e vaccini. Al loro posto, si è detto, propone lo yoga. E il 12 agosto 2022 presenta per le politiche il simbolo dei Gilet arancioni - Generale Pappalardo. Ma non troverà poi le firme per farne una lista. 

Che trovi, tra tutti questi impegni politici, anche il tempo per scrivere, comporre e dipingere, appunto,  fa pensare a un personaggio inventato. Però, ci riesce. A sua firma risultano infatti quattro saggi, cinque raccolte di poesie e due opere di narrativa, tra cui “L’utopia dell’Ummita”: verrebbe da un  manoscritto a lui consegnato da un extraterrestre proveniente dall’ipotetico esopianeta Ummo. Pappalardo assicura che il padre, sottufficiale dell’Arma, lo aveva mandato in accademia appunto perché preoccupato per il troppo tempo dedicato dal rampollo a chitarra e pittura. “Con la musica non si campa”, gli ripete. Lui però si porta al corso sia lo strumento che i colori, racconta che davanti all’ufficio del comandante della Scuola ufficiali dei Carabinieri c’è una Carica di Pastrengo da lui disegnata al carboncino, e appunto ha fatto eseguire nel 1997 una Missa Militum dedicata alle forze di pace nel mondo; nel  2003 l’oratorio per Madre Teresa di Calcutta; nel 2005 l’opera per soli coro e orchestra “Il vento di Mykonos”; nel 2006 l’opera rock sul dialogo interreligioso “Bhailpevaco”; nel 2007 una composizione sacra per i cinquecento anni della Basilica di San Pietro trasmessa dal Tg2 Dossier. Orgoglioso di questa produzione, Pappalardo a Vasco Rossi ha ricordato “fra qualche tempo non sarai ricordato neanche dal netturbino che passa per le strade”, mentre “le mie sinfonie sono immortali”, e via Twitter ha pure rivolto vari appelli a Paul McCartney per prendere in considerazione una sua “Beatles Symphony”. Sembra senza troppo effetto.

Insomma, una gran fatica, ma sia dal punto di vista elettorale che commerciale alla fine con esiti minimi, se comparati al successo folgorante di Roberto Vannacci: primo posto in hit parade libraria per il suo autoprodotto “Mondo al contrario”, e secondo i sondaggi il bacino di un possibile 4 per cento di voti per un eventuale movimento politico da lui ispirato. Certo, un “Mondo al contrario” in cui c’è un mucchio di roba. Battute considerate omofobe, e una autoproclamazione di discendenza ideale da una lista di personaggi tra cui alcuni notoriamente omosessuali o bisessuali: anche se in effetti chiarisce che secondo lui  “l’omosessualità non cambia assolutamente nulla alla grandezza di Michelangelo e Leonardo e di tutti quegli altri coartati nella schiera Lgbtq+. La grandezza di quegli artisti risiede nelle opere realizzate e non nei gusti della loro intimità”. Considerazioni sul dna degli italiani e sui lineamenti di Paola Egonu, e l’ammissione di avere una moglie romena che ha acquisito la cittadinanza per matrimonio in un modo che gli è sembrato troppo facile, visto che non le hanno fatto neanche un esame di lingua. Considerazioni sprezzanti sugli allarmismi ecologisti e antinucleari, dopo che lui stesso vi ha contribuito con un paio di esposti sull’uranio impoverito da cui secondo molte interpretazioni sarebbero cominciati i suoi problemi con i comandi.

Il linguista Massimo Arcangeli sul Corriere della Sera oltre a rilevare un bel po’ di strafalcioni osserva che, improperi con cui condisce il discorso a parte, quasi tutto il libro è copiato. Ma il punto è che nel mondo al contrario avviene che, con una guerra in corso in cui l’Italia e i suoi alleati sono schierati da una parte, il generale sente il bisogno di scrivere un libro in cui si loda il “nemico”. 

Uno col curriculum di Vannacci “non viene congelato all’Istituto geografico militare senza una ragione precisa. E la ragione sta nelle posizioni estremamente favorevoli a Putin maturate nel periodo in cui è stato addetto militare a Mosca dal febbraio 2021”, ha scritto Bruno Vespa. Ma tra social e off records c’è perfino chi dubita addirittura che il libro sia farina del sacco del generale, e ipotizza che per lo meno alcuni contenuti gli siano stati passati apposta. Chi invece ci mette la faccia è l’Istituto  Germani di Scienze sociali e Studi strategici, che sulle politiche di influenza della Russia ha pubblicato una quantità di rapporti. Il suo direttore, Luigi Sergio Germani, ci ricorda appunto che “uno dei settori della società italiana  che da anni  il Cremlino punta  a influenzare tramite le sue  misure attive è il mondo militare. C’è sicuramente una strategia del Cremlino che ha come obiettivo precipuo il condizionamento delle percezioni all’interno degli ambienti militari.  Molte delle narrazioni tipiche della propaganda russa mirano specificamente  a sfruttare e rafforzare   gli orientamenti fortemente sovranisti, populisti, conservatori e/o antiamericani che sono presenti all’interno delle forze armate”. 

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