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Fedriga tradisce Meloni. Le regioni certificano l'affanno del governo sul Pnrr

Valerio Valentini

Coperture incerte, rischi per i conti pubblici, possibile blocco delle opere: i governatori, guidati dal leghista friulano, evidenziano le incognite sul dossier di Fitto con le modifiche al Piano. E c'è pure l'Ufficio parlamentare di Bilancio a mettere in dubbio le stime di crescita nel 2023: l'incertezza sul Recovery mette in discussione la previsione del +1 per cento

A Palazzo Chigi deve apparire un po’ un assedio. Solo che a condurlo, e per giunta sul più strategico dei dossier, il Pnrr, non sono le opposizioni, impegnate per lo più a bisticciare tra loro. Le critiche più severe sono organismi tecnici, a farle: e dunque ecco la nota dell’Ufficio parlamentare di Bilancio (che segnala come i “fattori d’incertezza” riguardanti  “l’evoluzione del Pnrr” rischiano di pregiudicare le previsioni di crescita), che arriva due giorni dopo quella, analogamente critica, del Centro studi di Camera e Senato. E poi, ed è bizzarro e quindi significativo, a stigmatizzare le scelte del governo sul Recovery sono enti che, per la loro composizione politica, si pensavano amiche. E invece forse è proprio il documento licenziato dalla Conferenza delle regioni, a guida e a maggioranza di destra, il più problematico per Giorgia Meloni. Problematico non tanto per la portata in sé del papello da 36 pagine, che nella liturgia della concertazione tra Roma e gli enti locali vale quel che vale, come sempre. Problematico lo è, quell’incartamento firmato dal leghista Massimiliano Fedriga, presidente della Conferenza, perché di fatto riprende, e dunque legittima, molte delle contestazioni che all’operato di Raffaele Fitto sono state fatte dalle opposizioni, e nel farlo le amplifica, quelle contestazioni, e ne fa arrivare l’eco fino a Bruxelles.

Per il metodo scelto, anzitutto. “Le regioni benché giochino un ruolo fondamentale per l’attuazione degli interventi (...), evidenziano di non essere state coinvolte nel processo di definizione del Pnrr”, esordisce la relazione sulle proposte di modifica al Piano rese pubbliche la scorsa settimana dal ministro per gli Affari europei. Al quale i governatori – la richiesta è stata avanzata anzitutto da Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, ma condivisa poi anche dai colleghi di destra – ritengono “quanto mai opportuno e urgente” chiedere “un confronto nel merito”. Perché poi, con buona pace delle procedure, che pure contano, i problemi stanno lì: nel merito delle scelte fatte. La rimozione dal Pnrr di alcune opere di competenza degli enti locali, specie quelle più modeste,  ad esempio, non convince i presidenti di regione: tanto più se l’obiettivo categorico è quello di conseguire gli obiettivi entro l’agosto del 2026, allora risulta “meno chiaro il taglio di procedure avviate che comunque prevedevano investimenti di non corposa entità”. Si era partiti, insomma, coi cantieri, e si era convinti di essere a buon punto: perché togliere quelle opere?

E poi c’è l’inquietudine più grossa, per le regioni. Quella che riguarda la cassa: i governatori difendono gli stanziamenti a loro destinati, e ci sta. Ecco dunque “le osservazioni e richieste di chiarimento  con riferimento alle fonti di finanziamento sostitutive in varie sezioni proposte e ai tempi di individuazione di tali coperture”. Fitto, dal canto suo, ha già spiegato che le fonti alternative andranno cercate nel Pnrr complementare (30 miliardi di risorse nazionali) e, soprattutto, dai fondi di coesione europei. Ma al di là del fatto che questo impegno è ancora tutto da definire, la preoccupazione di Fedriga e dei suoi colleghi è anche nell’“alto rischio (...) che le coperture dei suddetti tagli possano, in effetti, gravare sul ‘Fsc quota regionale’ (tanto più che ci sono appalti in essere con relativi impegni di spesa che necessitano di coperture immediate)”. Insomma, Palazzo Chigi, nell’affanno di dover trovare nuovi soldi, potrebbe sottrarli ai fondi di sviluppo e coesione assegnati alle regioni. Il tutto, peraltro, con la necessità di dover tenere conto del riparto territoriale: il 40 per cento delle risorse del Pnrr va assegnato al sud, e al Mezzogiorno va attribuito anche l’80 per cento degli Fsc: un rompicapo contabile che, temono i governatori, finirà con lo stravolgere i loro bilanci e la loro programmazione degli investimenti. Il che, per un governo che pretende di realizzare l’autonomia differenziata (citofonare Zaia), è quasi surreale.

Di qui, dunque, si arriva allo spauracchio peggiore: quello, cioè, “che la sostituzione delle risorse Ue con quelle del bilancio nazionale potrebbe rappresentare un’incognita forte data da saldi di finanza pubblica e dall’entrata in vigore della nuova governance europea, un rischio blocco dei cantieri senza la certezza dei finanziamenti”. Ed è una preoccupazione, questa, che in effetti è condivisa anche dai tecnici del Mef in vista della legge di Bilancio. Su cui grava, appunto, anche l’incognita del nuovo Patto di stabilità: se dovesse saltare la proposta della Commissione – che pure a Meloni non piace, ma che pare il compromesso migliore per l’Italia – a gennaio si tornerebbe ai vincoli finanziari pre Covid, e per Giancarlo Giorgetti sarebbero guai seri.

Tanto più che il ministro dell’Economia deve badare anche alle analisi, non proprio incoraggianti, dell’UpB. Che, nella nota congiunturale di agosto, conferma le stime di crescita inserite nel Def, con un pil in salita dell’1 per cento nel 2023, ma segnala che “lo scenario macroeconomico dell’economia italiana appare nel complesso soggetto a rischi, nel complesso orientati al ribasso”. Complicazioni “di natura internazionale”, certo, ma non solo. Ci sono infatti, si legge nella nota, “rilevanti fattori d’incertezza anche all’interno del nostro paese, in primo luogo sull’evoluzione del Pnrr”. Eccolo, l’assedio. Ad agosto, poi. E con questo caldo. 
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.