(foto Ansa)

Sabotaggio perfetto

Il congresso della Lega in Veneto è un intrigo tardo-sovietico. E Salvini la sfanga ancora

Francesco Gottardi

La base ribelle aveva la vittoria in pugno. Ma a ridosso del voto, questo sabato, succede di tutto: Marcato ritira la sua candidatura, tradito dal fuoco amico e perfino da Zaia. Così esulteranno i soliti yes men. Dietro di loro, la regia occulta di via Bellerio sempre più in versione politburo

A modo suo, è un capolavoro di machiavellismo. Da un bel pezzo molti leghisti veneti non sopportano più Matteo Salvini. Tantomeno i suoi fidi cacicchi, piazzati a vigilare sul territorio – cioè a Roma – senza il consenso della base. Eppure, con ogni probabilità, saranno loro a vincere il prossimo consiglio regionale del Carroccio. Alè. Dopo mesi di sotterfugi, epurazioni, inciuci dietro le quinte. La concorrenza era forte e agguerrita, nella figura di Roberto Marcato, lui sì, campione di preferenze. Ma martedì ha ceduto per sfinimento, ritirando a sorpresa la propria candidatura. “Oggi viene ucciso un sogno”, spiega l’assessore allo Sviluppo economico in un’accorata conferenza stampa. “Mi vengono i brividi, a pensare a un Veneto non più guidato dalla Lega. E perciò ho lottato per riportare il partito com’era una volta. Ma hanno fatto di tutto per impedirmelo”. Fino ai tradimenti. Al fuoco amico. Il più incredibile: il placet di Zaia – tu quoque, Luca! – all’opa ostile dei salviniani. Così il bulldog è finito in gabbia. E il fu capitano la sfanga ancora.

 

Un rapido sguardo in superficie. Il 24 giugno, dopo tre anni di commissariamento, i delegati leghisti sceglieranno finalmente il loro segretario regionale. Da una parte Alberto Stefani, yes man di Matteo. Dall’altra Franco Manzato. L’insospettabile, il deus ex machina designato dal Carroccio trevisano. Talmente ex machina che infatti i militanti non lo conoscono. I votanti al congresso, poco di più. Così si profila un’ipotesi impensabile fino a qualche settimana fa: Stefani trionfatore, con tanto di tappeto rosso. E la fantomatica Liga ribelle, da valanga che era, rischia di riscoprirsi piagnisteo isolato. Per Salvini e soci, questione veneta risolta – fino alle vere elezioni: auguri. Dunque com’è possibile che un mite bossiano come Manzato, deputato nella scorsa legislatura e poi non rieletto, abbia sbaragliato il favoritissimo Marcato? L’assessore era pronto pure alla corsa a tre: avrebbe vinto lo stesso. Lo sapeva anche Stefani. E per questo i vertici del partito hanno escogitato un formidabile sabotaggio nell’ombra. Altro che destra riottosa, altro che subdole arti dalemiane: roba da far scendere una lacrimuccia alla nomenklatura sovietica, se ci fosse ancora. Succede che una ventina di giorni fa spuntano come funghi nuovi sponsor di Manzato. A Gian Paolo Gobbo e Dimitri Coin, storiche anime della Lega a Treviso, si aggiungono Enrico Corsi nel Veronese e Erik Pretto nel Vicentino. Quest’ultimo è alla Camera dal 2018 e siede vicino alla triade padovana Stefani-Bitonci-Ostellari. Insieme, convincono qualche pesce grosso che Manzato è l’uomo giusto. Il terzo che gode fra i due litiganti. Presto si sfalda il fronte anti-Salvini. Coin se ne accorge e lunedì sera convoca i suoi: Stefani non avrebbe la maggioranza, ma ora nemmeno Marcato – né, figurarsi, il terzo.

 

È la cartina tornasole di quel che si prospetta in regione. Il giorno dopo i manzatiani telefonano all’assessore per trovare un accordo. E di nuovo, a ridosso della conferenza stampa, gli promettono di tornare a convergere su di lui. Ma ormai chi ci crede più. “Preferisco farmi da parte con coerenza”, risponde Marcato, “piuttosto che entrare in certe dinamiche”. Un delitto politico perfetto. I militanti ne sono convinti: arruolare delegati pro-Stefani, dopo che fino al giorno prima lo avevano contestato, non sarebbe stato credibile; farli convergere su una candidatura perdente, che tagliasse fuori il bulldog e spianasse la strada al commissario uscente, beh, è tutta un’altra storia. E la regia occulta arriva direttamente da via Bellerio. Che del Veneto non parla, ma se ne preoccupa: da qui passano gli equilibri della Lega, un sesto dei suoi voti e la tenuta  di Salvini. Dirottare il congresso era una necessità. E un Carroccio debole nel suo dogado, tutto sommato fa comodo anche a Zaia: ora si sta avverando quel che il presidente si augurava con assordante discrezione. È l’unica cosa di cui i marcatiani non si capacitano. Allora meglio gettarsi la toga sul capo e offrirsi agli dèi. Visto che gli uomini, questi sono.

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