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Come si batte Giorgia Meloni

Roberto Giachetti

L’opposizione che costruisce caricature. I nemici che vanno a caccia di farfalle. E una certezza: per affrontare la premier occorre cambiare tutto, dimenticare la vecchia Giorgia e concentrarsi sulla nuova Meloni. Un ritratto contromano della premier, scritto da un avversario che la conosce bene 

Ammettiamolo fuori dai denti, come si dice: chi pensava di ritrovarsi l’immagine della “strega” urlante dai banchi dell’opposizione, immortalata da numerosi e poco eleganti meme che girano in rete, è rimasto deluso. Chi si aspettava una coerenza di ferro rispetto ai proclami di una campagna elettorale che l’ha vista trionfare in maniera nettissima si è dovuto ricredere. Ma allora chi è e dove vorrebbe andare Giorgia Meloni, prima donna premier e leader di un partito di “destra destra” fin qui mai chiamato alla prova del governo nazionale? Il direttore me lo chiede perché, conoscendo il rapporto di amicizia che ci lega, vorrebbe un ritratto quanto più vicino alla realtà e fuori da un’aneddotica forse già trita e ritrita o dai soliti rumours giornalistici. Vorrebbe delle previsioni, che non sono certo di poter accontentare. Provo a limitarmi a un’analisi che chiaramente è parziale nelle forme e nei modi in cui fatalmente può esserlo a fronte di una consuetudine di così ormai vecchia data, ma che forse gode del privilegio di una certa aderenza ai fatti perché libera da vincoli nella critica cosi come nell’apprezzamento.

Conosco Giorgia da ormai più di quindici anni, e ragionevolmente posso affermare che ci lega un rapporto di vera amicizia. Ora l’amicizia – come noto – ha spesso canali insondabili e ci si ritrova ad avere una sintonia particolare con qualcuno per motivi diversissimi: comunanza di vedute, provenienze simili, sistema valoriale affine o talvolta anche per i motivi diametralmente opposti. Non credo di aver mai condiviso con lei mezza posizione politica, su quel terreno siamo sempre stati cordialmente degli avversari. Ma sul piano umano, invece, abbiamo sempre camminato nella medesima direzione. Giorgia è, prima di tutto, una persona perbene, appassionata del suo lavoro, tenace, tosta, “secchiona”, profondamente convinta delle sue idee ed al contempo estremamente consapevole dei propri limiti, della propria insicurezza, nascosta sotto una patina di aggressività dialettica che in anni e anni di opposizione ha affinato, e che è diventato un po’ il suo tratto preminente sul piano mediatico e politico. Chi negli anni l’ha osservata bene non può non aver notato, comunque, un percorso di crescita e – diciamo così – di limatura di certe spigolosità che, ad esempio, l’hanno portata nella fase di governo di Mario Draghi e dunque in una congiuntura delicatissima per il paese, da un lato a essere la leader dell’unica opposizione in Parlamento e contemporaneamente (basta osservarne i primi passi subito dopo la sua nomina, in un costante scambio proprio con il suo predecessore) a mantenere con il presidente del Consiglio un ottimo rapporto sul piano personale. Potrebbe sembrare scontato mettere in evidenza quest’aspetto, ma a mio avviso non lo è proprio perché mi consente di far emergere un altro elemento centrale del ritratto: la lealtà. Giorgia Meloni, per come la conosco, è una delle persone più leali che abbia incrociato nel mio percorso, e lo è tanto sul piano umano che politico.

Siamo stati abituati negli ultimi vent’anni a leadership improvvisate che vengono costruite a tavolino e che restituiscono un’immagine all’opinione pubblica distorta e lontanissima, invece, dalla verità; personalità sbiadite propinate come padri della patria, uomini e donne senza passato, senza background, senza formazione, senza errori da mettere nel curriculum, senza pentimenti, ma con la faccia giusta per affermare una teoria e rinnegarla, se conveniente, alla prima occasione utile. Nel caso della Meloni il miglior consulente di immagine credo sia stato fondamentalmente il tempo.

     

Un tempo speso nelle piazze e in Parlamento, nelle istituzioni quando chiamata a rappresentarle fin da giovanissima, un tempo fatto di lavoro, di apprendimento, di strappi, di difficoltà, di momenti cruciali e infine un tempo di scelte. Un percorso che l’ha portata spesso a prendere decisioni coraggiose e anche impopolari o inconsuete in un sistema bloccato come il nostro, ne dico una per tutte: costruire un partitino con il serio rischio di non superare lo sbarramento, farlo crescere per traghettarlo fino alla guida del paese, un inedito nella storia della nostra Repubblica. Senza chiedere il permesso a qualcuno, senza attendere il turno di un placet in un’ottica meramente cooptativa, senza infilarsi in un pertugio lasciato aperto da fallimenti altrui, ma semplicemente organizzando tutti gli step di una cavalcata verso la vetta con gli strumenti che la democrazia mette a disposizione, detta in maniera più semplice facendo qualcosa che si fa sempre di meno, e cioè politica.

Ed è proprio da qui, da questo pacchetto che l’esperienza le ha lasciato in dote, dalla conoscenza del sistema, dalla capacità di ingaggiare battaglie anche minoritarie, dall’intelligenza di fiutare l’aria che tira, da una strategia che non ha forzato i tempi ma che li ha sostanzialmente incoraggiati attraverso campagne di impronta populista ideali ad aumentare il consenso, che Giorgia Meloni è arrivata sul gradino più alto. Più volte l’ho sentita ripetere che non si tratta di un traguardo ma che, anzi, la responsabilità di avere nelle mani il destino dell’Italia rappresenta per lei quasi un bicchiere mezzo vuoto. Le credo, so che è così. So che, una volta seduta su quella poltrona, la lente attraverso cui, volente o nolente, si è obbligati a osservare la realtà è completamente diversa da quella che una posizione in cui fatalmente prevale la pars destruens delle cose ti consente di usare.
Le credo perché sarebbe sufficiente osservare la versione 2.0 da presidente del Consiglio da circa otto mesi a questa parte per rendersi conto che una fetta consistente dei temi chiave della sua campagna elettorale è andata progressivamente a sfumarsi, a modificarsi, a perdere i contorni più netti, fino addirittura, in alcuni casi, a venire quasi rinnegata. Solo per fare degli esempi pensiamo a tutti i dietrofront e agli annunci di norme che nel giro di pochi giorni sono finiti svuotati dei loro tratti più radicali e cogenti: dalla questione del Pos, al decreto sugli sbarchi selettivi, dalla stessa norma anti rave che, pur rimanendo una schifezza, è molto cambiata rispetto al testo originario. Pensiamo anche al cambiamento di rotta sulla Corte dei conti: siamo passati dalla Meloni che durante il governo Draghi rivendicava la sacralità dei controlli sul Pnrr, chiedendo addirittura che fossero aumentati, e accusava il governo di voler bypassare i gli organi di garanzia a questa Meloni che da premier fa un bagno di realtà nella consapevolezza che lo stato del paese necessita di approcci più pragmatici e meno ideologici. Non parliamo poi delle posizioni del passato più remoto, penso ai blocchi navali, alla contrarietà alle trivelle, alla giustizia, solo per fare degli esempi.

Come dicevo quindi all’inizio, la versione istituzionale della Meloni a cui ci stiamo abituando è ben diversa da quella della pasdaran della destra dura e pura che conosciamo. E’ semmai un esercizio anche camaleontico di indossare dei panni completamente inediti, in cui l’approccio anche aspro rispetto alla complessità dei problemi che è chiamata ad affrontare si accompagna a una strategia che di fatto continua ad utilizzare la proclamazione di alcuni dei temi identitari più cari al suo elettorato di riferimento e a pezzi della sua classe dirigente come consolidato strumento per drogare il dibattito pubblico (spesso anche grazie alla complicità di pezzi dell’opposizione) per spostare l’attenzione, per nascondere da una parte i decisi ribaltamenti delle sue posizioni rispetto agli anni precedenti e dall’altra l’inatteso e sorprendente indecisionismo rispetto a partite fondamentali: il Pnrr sopra a tutte.

Sarebbe però un errore non considerare il cambiamento che si è prodotto nel rapporto con l’Europa, non più dunque considerata come “covo di banchieri e burocrati”, non più mostro giuridico ed economico che impedisce al paese di fare le proprie scelte in autonomia, non più solo interlocutore obbligato per l’agibilità delle singole Nazioni, per usare un termine a lei caro. No, il presidente del Consiglio, osservando tutte le sue mosse dall’insediamento a oggi, sembra aver compreso che l’Europa sia e debba essere la vera casa comune e che è solo lì, su quei tavoli (vedrete come alla fine anche sul Mes farà il contrario di quello che ha ripetutamente detto) e nel rapporto con le sue istituzioni e gli stati membri, che si gioca la vera partita, quella del paese e la sua personale. Quella del paese perché, con una guerra vicino casa, con una crisi economica e sociale di queste proporzioni, gli interessi dell’Italia si fanno in primis su quel versante, in un’ottica di ampliamento delle relazioni e del rispetto degli equilibri geopolitici. Quella della sua leadership personale, che in forza di un consenso che i sondaggi ci dicono essere più o meno costante a distanza di mesi e in virtù di un orizzonte lungo di legislatura, con una maggioranza al momento numericamente solida, ha la possibilità anche di imporsi oltre confine. Da un lato sfruttando anche le sponde impreviste che arrivano dalla Von der Leyen, tutta presa a cercare di garantirsi la successione a se stessa, e dall’altro  adottando una strategia molto ambiziosa che, come sappiamo, punta a spostare il tradizionale asse Ppe-Socialisti attraverso una saldatura tra Conservatori e Popolari che cambierebbe radicalmente i rapporti di forza nella governance europea (anche se nel nostro paese abbiamo imparato che un anno, quello che ci separa dal voto europeo, può essere più che sufficiente per dilapidare consensi e stroncare leadership che all’apparenza sembrano solidissime). Però, in tutto questo ipotetico scenario, esistono dei “ma” giganteschi che come quasi sempre succede – guardiamo a cosa accaduto ad esempio con Renzi sul referendum ma più recentemente anche a Mario Draghi – dimostrano che di fronte a una crescita esponenziale di popolarità e di attivismo internazionale i pericoli e i nemici da cui guardarsi sono soprattutto dentro casa.

Non c’è possibilità alcuna, a mio avviso, di aspirare a essere la nuova Merkel, per usare un’espressione che ormai ricorre un giorno sì e un giorno no sui media, senza affrontare dei nodi strutturali che partono in primo luogo da alcune scelte di campo soprattutto di natura interna. Scelte che a mio avviso investono più livelli: quello identitario, quello economico sociale, quello politico. Sul primo punto se davvero Giorgia Meloni vuole consolidare una posizione di riferimento e una centralità nella politica italiana e non solo, non basta rinunciare – eventualmente – alla fiamma nel simbolo, bisogna chiudere definitivamente non tanto con gli estremismi del passato ma con quelli di oggi, non con il fascismo del ventennio ma con i fascismi attuali.

 

Occorre delineare un futuro che in molti campi è in contrasto con il suo passato, a cominciare dai messaggi che si riversano nell’opinione pubblica: dismettere la diffusione della paura per veicolare la proposta politica e dell’aggressività per imporsi nel dibattito trasmettendo, invece, la serenità e la sicurezza di chi ha chiaro un orizzonte da indicare. Emanciparsi dall’appartenenza faziosa e spingere un intero paese, facendosi carico di venire incontro anche alla parte di popolo che non è nella sua agenda, o anche evitando di farlo, su temi sui quali “naturalmente” o “partiticamente” si ha una posizione lontana. Bisogna essere capaci di cambiare idea e punti di riferimento, non più incatenarsi ai muri di Orbán (e a proposito di mutamenti radicali rispetto al passato, sbaglieremmo a sottovalutare la rottura con il leader ungherese sul tema dell’immigrazione come forse abbiamo sottovalutato la sua separazione dalla strada della Le Pen) o alle sparate di Vox.

Ma molto del lavoro in questo senso va fatto in casa propria. Per questo, osservando la realtà, bisogna essere disposti a non esaltare, anzi direi addirittura che le converrebbe lasciare sullo sfondo alcuni pezzi della propria classe dirigente, in parte ancorata a nostalgismi e a rigurgiti che la rendono completamente inadeguata al compito.

Sul piano economico e sociale dovrebbe avere il coraggio di lasciarsi dietro le zavorre ideologiche e no che impediscono all’Italia di crescere; dovrebbe guardare maggiormente ai ceti produttivi medio-grandi e meno alle piccole corporazioni che tengono in ostaggio il paese (balneari, tassisti, ambulanti solo per fare degli esempi) magari lasciandoli a qualche alleato che ha bisogno in questo momento di uscire dal cono d’ombra determinato proprio dalla popolarità del premier.

Sul piano politico, però, la strada è impervia per la Meloni. A distanza di un anno è difficile vedere risultati concreti e distintivi della sua azione. Ha certamente potuto beneficiare positivamente dall’aver proseguito la strada tracciata da Draghi sia in Europa che nel paese (vedere la prima manovra economica del governo) ma per il resto se – come ho detto prima – togliamo qualche inutile provvedimento bandiera, con intenti solo distrattivi, come per esempio il reato universale per l’utero in affitto, chiudendo gli occhi è difficile ricordare qualche scelta significativa del governo.

Su un tema in particolare non solo per le proposte in campagna elettorale ma anche sulla scelta del ministro competente, Giorgia Meloni era riuscita a sparigliare: la giustizia, un settore cruciale per il paese. Sorprendentemente rispetto a posizioni passate (basti pensare a quella schifezza indegna del cartello a Bibbiano), anche e soprattutto di alcuni esponenti di FdI, le riforme annunciate apparivano il vero tratto distintivo di questo governo rispetto a quelli passati. Separazione delle carriere, intercettazioni, custodia cautelare, solo per citarne alcune, rappresenterebbero una vera rivoluzione in questo paese e al contempo un banco di prova per il presidente del Consiglio circa la sua effettiva determinazione e forza nel fare. Se, come temo, le questioni più rilevanti verranno mestamente lasciate arretrare fino all’oblio parlamentare (sulla separazione delle carriere sta accadendo esattamente questo) per paura dello scontro con l’Anm (come sempre accaduto quando si è cercato di riformare seriamente la giustizia in questo paese), la Meloni avrà perso una straordinaria occasione per dimostrare di saper governare.

Io non so se Giorgia Meloni riuscirà a cambiare così tanto da cucirsi addosso un nuovo abito che sia in grado di aumentare la sua forza ed allargare il consenso nei prossimi anni. So che se si illude di farlo semplicemente con una buona comunicazione e con un po’ di maquillage commette un grave errore. Se vuole provare a ottenere quel risultato dovrà andare a fondo, superare intransigenze e settarismi, armarsi di pragmatismo e responsabilità abbandonando i residui populisti (che a volte sembra non siano tanto residui) e abituarsi a occuparsi dell’insieme molto più che della sua parte. Ma, di contro, a cambiare deve essere anche l’opposizione che nella sua parte preponderante continua a contrastarla sul terreno che lei vuole, abboccando a tutti gli ami che lancia, dal ministero del Merito all’istruzione agli stipendi differenziati per i docenti, dal “il” invece del “la” presidente, dalla sostituzione etnica ai controlli della Corte dei conti, dai sassi dell’Adige esposti per accusarla in qualche modo di essere responsabile della siccità, alle polemiche per alcune questioni pubblicate nel suo libro, dallo scandalo della frase sul pizzo di stato e poi sulla presenza della figlia al G20  e, solo da ultima, per l’assurda polemica per la decisione di proclamare il lutto nazionale per Berlusconi. 

Se questa continua a essere l’opposizione prevalente, è facile prevedere che Giorgia Meloni governerà per parecchio tempo. Eppure non è che non vi siano questioni fondamentali sulle quali chiamarla a rispondere della propria azione di governo come, ad esempio, per la confusione e i ritardi, penso innanzitutto al Pnrr. Per la timidezza di una riforma come quella fiscale che, per continuare a blandire la flat tax, rinuncia al respiro alto di cui avrebbe bisogno il nostro regime fiscale. Per l’irresponsabile prosecuzione di una politica pensionistica che tutti sanno non più sopportabile, pena il default dei nostri conti. Per la mancanza di un progetto di riforma del nostro sistema sanitario che la pandemia ha mostrato in tutti suoi gravissimi limiti e inadeguatezze. Per la urgente cura del territorio dai rischi idrogeologici e, più in generale, dalle calamità naturali. Per l’imbarazzante ritrosia a una vera riforma della concorrenza.

Ma a fronte dei tanti bislacchi allarmi lanciati contro la Meloni per le sue radici, per i rischi per la democrazia, per le derive autoritarie, se mi si chiede: esiste ad oggi un vero pericolo che corriamo con la Meloni? io dico sì. Ed è l’informazione. Informazione che in una democrazia è fondamentale, decisiva. Sia chiaro non parlo delle poltrone (cda, direttori ecc.). Questa maggioranza ha fatto più o meno quello che hanno fatto tutti e chi grida allo scandalo fa un po’ sorridere. E non mi riferisco neanche all’accusa che le viene fatta di voler lanciare una nuova narrazione. Mi riferisco a quello che ha messo in evidenza l’Osservatorio di Pavia circa la “militarizzazione” da parte della maggioranza, di Fratelli d’Italia in particolare e della Meloni soprattutto, nell’occupazione di oltre il 70 per cento degli spazi Rai tra tg, notiziari, contenitori ecc. Non so spiegarmi se Meloni non si rende conto o se rendendosene conto accetta e sfrutta questo stato di cose. Ma il fatto è grave e credo che, se non ci saranno rapide e decise correzioni, occorreranno azioni politiche molto nette, come tante volte Marco Pannella ci ha insegnato essere necessarie.

Resta comunque il fatto che Giorgia Meloni non è più quella che abbiamo conosciuto per tanti anni, e non a caso chi pensava che sarebbe precipitata in popolarità e seguito poco dopo il suo avvento al governo, dopo circa un anno ha dovuto ricredersi e fatica ancora a prenderle le misure. Non è certo diventata la Merkel italiana – con buona pace dei tanti che la vorrebbero già così – ma chi vuole opporsi a lei e sconfiggerla alla prossima occasione, o impedire che si attesti per un lungo corso come la leader indiscussa del paese, commetterebbe un grave errore di sottovalutazione se pensasse che un traguardo del genere sia reso impossibile dalla sua provenienza, dalla sua storia, da quello che ha rappresentato in questi anni. La Meloni ha dimostrato in questi mesi, senza metterla in vetrina, una grande capacità di cambiamento e non scommetterei che in futuro non sia in grado di riservarci altre sorprese (penso ad esempio a una strategia riguardo l’immigrazione completamente diversa da quella che conosciamo).  

Mentre finivo di scrivere è arrivata la notizia dolorosa della morte di Berlusconi. Che certamente produrrà fermento e cambiamenti significativi nella politica. Vedo che molti si sbilanciano su quello che potrebbe accadere nel breve-medio termine ipotizzando una sostanziale spartizione tra Lega e FdI non solo della classe dirigente di FI orfana di Berlusconi ma anche del suo elettorato. Anche qui l’analisi mi sembra affrettata, inadeguata e un po’ miope. Io penso che la morte di Berlusconi, con tutto quello che si porta dietro, potrebbe accelerare il processo di riposizionamento di Giorgia Meloni di cui parlavo prima. Meloni potrebbe decidere una strada diversa dall’annessione, lanciando un nuovo progetto che occupando lo spazio politico di FI parli e coinvolga quel popolo indeciso, non schierato, insoddisfatto che da tempo attende una proposta politica non solo credibile ma anche convincente.

Tutto ciò sia monito anche per i tanti aspiranti alla costruzione e rappresentanza del centro e dei moderati. Se non si fa un salto di qualità nel pragmatismo e nell’azione politica – Renzi sembra l’unico ad averlo capito – se non si capisce che lo spartito è cambiato anche per noi, si rischia che la casa che vogliamo costruire la troviamo occupata appena finito di aprire la porta.

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