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una BIZZARRA STORIA

Snobbata e spostata, alla fine la festa del 2 giugno si è ripresa la scena

Giovanni Belardelli

Non è mai stata una data divisiva, che una parte politica potesse (o volesse) rivendicare contro l’altra, come è avvenuto per la Liberazione. E questo è un requisito essenziale per una ricorrenza nazionale, forse proprio quello che ha permesso alla festa della Repubblica di sopravvivere ai tentativi di declassarla, svuotarla, perfino cancellarla 

A differenza del 25 aprile, che come abbiamo tutti visto suscita ancora polemiche (più o meno strumentali), la festa del 2 giugno ha sofferto invece di un problema diverso: di polemiche ne ha sempre suscitate poche, per il semplice fatto che fin dall’inizio è stata una festa in tono decisamente minore. Al referendum istituzionale del 1946 molti italiani avevano scelto la monarchia (10,7 milioni contro i 12,7 che votarono per la repubblica), ma non è stata questa la causa del limitato rilievo assunto dalla ricorrenza a partire da quando – nel 1949 – venne ufficialmente istituita.

 

La ragione principale fu la vicinanza con la data del 25 aprile, che da subito implicò un ridimensionamento del 2 giugno, anche perché una parte del paese dava una maggiore importanza alla giornata della Liberazione rispetto alla festa della Repubblica. Per anni il 2 giugno fu dunque ricordato, certo, ma con minore risalto e senza riuscire e radicarsi nella coscienza collettiva del paese; come invece, nonostante le polemiche, avveniva per il 25 aprile. Lo scarsissimo successo della festa rimanda a quella crisi dell’idea di nazione sottolineata da molti storici in riferimento ai primi decenni repubblicani, quando prevaleva un “patriottismo di partito” (come lo definì il liberale Mario Ferrara) in virtù del quale ci si sentiva democristiani, socialisti o comunisti prima che italiani. Fatto sta che tra gli anni Sessanta e i Settanta la festa della Liberazione sembrò affermarsi pienamente, con polemiche sulla Resistenza che diventavano marginali e appannaggio della sinistra extraparlamentare; al contrario, il 2 giugno subiva il destino opposto, quello di un’emarginazione. 

 

Nel 1977 si decise infatti che la festa della Repubblica dovesse festeggiarsi la prima domenica di giugno e non il 2 di quel mese; diventava insomma una festa “mobile”, replicando così – per un paradosso di cui probabilmente i parlamentari erano ignari – una caratteristica della festa dello Statuto nell’Italia monarchica, che si festeggiava anch’essa la prima domenica di giugno. Se fin lì la festa della Repubblica aveva sofferto della “concorrenza” del 25 aprile, era evidente che adesso il giorno della Liberazione – che restava festivo – riusciva a prevalere, almeno per il momento. L’eliminazione della festività del 2 giugno, come di altre ricorrenze religiose, venne giustificata con la necessità di ridurre il numero dei giorni festivi, ma certo la decisione non era affatto neutra. Come chiarì un senatore comunista nella discussione al Senato, il 2 giugno ricordava un momento certamente decisivo della nostra storia, ma alla fin fine si riferiva soltanto alla giornata elettorale del referendum; “il 25 aprile invece è il fatto da cui deriva la Repubblica”, un fatto “ancora più ampio e popolare”. 

 

A marcare il declassamento della festa – ulteriormente evidenziato dal fatto che ricorrenze religiose come l’Assunzione o l’Immacolata Concezione restavano giorni festivi – veniva contemporaneamente abolita anche la parata militare che per anni era stato il momento più caratteristico e spettacolare del 2 giugno. E venne fatto in un modo che definire bizzarro è il minimo. Nel 1976 la parata era stata sospesa in segno di lutto per il terremoto che aveva colpito il Friuli. Ma l’anno dopo, quando le tribune in via dei Fori imperiali erano già state montate, fu improvvisamente cancellata senza alcuna spiegazione ufficiale. La parata fu ripristinata qualche anno dopo dal governo Craxi, acquisendo poi – anche qui con una decisione non poco curiosa – cadenza quadriennale nel 1988. Almeno in teoria, perché nel 1992 il presidente della Repubblica Scalfaro, appena insediatosi, chiese che la parata venisse cancellata poiché non era “il momento di fare sfilate”. A un certo punto la festa della Repubblica rischiò addirittura di sparire: nel 1997, infatti, il presidente della Camera Luciano Violante propose in un’intervista di celebrare assieme la festa della Liberazione e la festa della Repubblica, riunificandole però nella data del 25 aprile.

 

La storia più recente della ricorrenza è abbastanza nota ed è legata alle iniziative del presidente Ciampi tese a rivalutare simboli e cerimonie nazionali: dall’inno di Mameli al tricolore, alla data appunto del 2 giugno. A partire dal 2000 la festa della Repubblica perse il carattere di ricorrenza “mobile” e anche la tradizionale parata venne ripristinata, sia pure con caratteristiche più legate ai tempi come la presenza di donne o di militari di altri paesi, fino alla partecipazione – l’anno passato – di cento medici e infermieri per ricordare il loro impegno contro il Covid. Ciampi voleva che la festa diventasse “per gli italiani come il 14 luglio per i francesi o il 4 luglio per gli americani” (che mai, possiamo aggiungere, penserebbero di trasferire le loro feste alla domenica più vicina). Non direi che questo sia del tutto avvenuto e tuttavia proprio le reiterate polemiche sul 25 aprile ci suggeriscono qualcosa di importante, l’aspetto per così dire positivo della relativa marginalizzazione subìta dal 2 giugno: questa non è mai stata una data divisiva, che una parte politica potesse (o volesse) rivendicare contro l’altra, come è avvenuto per la data della Liberazione. E questo è un requisito essenziale per una ricorrenza nazionale, forse proprio quello che ha permesso alla festa della Repubblica di sopravvivere ai tentativi di declassarla, svuotarla, perfino cancellarla.

 

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