il messaggio

Mattarella celebra Manzoni: "Sua idea di libertà contraria a supremazia basata su razza o etnia"

L'omaggio del capo dello stato in occasione dei 150 anni dalla morte dello scrittore lombardo: "L'Italia gli è debitrice come esempio morale e di evoluzione della lingua". Il discorso integrale

Redazione

Pubblichiamo qui di seguito il discorso che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha tenuto alla cerimonia in occasione del 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni, a Milano.


Autorità, gentili ospiti, care studentesse e cari studenti.

Ringrazio, a nome di tutti per i loro interventi, il Sindaco, il Presidente della Regione, il Prof. Bazoli, il Prof. Stella.

Ho deposto questa mattina una corona di fiori sulla tomba di Alessandro Manzoni, in questo 150° anniversario della sua morte. Un grande scrittore, un grande italiano, un grande milanese. Perché, caro sindaco, non si può spiegare Manzoni senza Milano e, penso che si possa dire, Milano senza Manzoni.

Con questa cerimonia – così raccolta e partecipata, per questo sarebbe piaciuta certamente a Manzoni – vogliamo rendere testimonianza di quanto l’Italia gli sia debitrice, in termini di pensiero, di produzione letteraria, di esempio morale, di evoluzione della lingua. Manzoni, uno degli spiriti più nobili del nostro Ottocento, protagonista del Romanticismo e del Risorgimento italiano. Definito, a ragione, il padre del romanzo italiano e maestro indiscusso di tante generazioni di letterati e di patrioti. La lettura dei “Promessi Sposi” ci riserva, ogni volta, nuovi e sorprendenti aspetti, per finezza, per arguzia, per profondità, per vividezza delle descrizioni, per il tratteggio psicologico dei personaggi; talmente autentici che i loro nomi, ancora oggi, definiscono caratteri esemplari.  

Abbiamo appena ascoltato, con una lettura particolarmente intensa – che qui la ringraziamo tutti - da parte Eleonora Giovanardi, l’episodio dell’incontro a quattr’occhi di fra’ Cristoforo con don Rodrigo. Sono eccezionali, in quel momento e in quel passaggio del romanzo, il gioco degli sguardi, quasi cinematografico, il movimento scenico, il dialogo drammatico, che si intreccia tra i rappresentanti di due concezioni del mondo così diverse: l’umiltà, la sete di giustizia, l’umanità da un lato; l’arroganza, la protervia, la prepotenza dall’altro.

Nello sterminato territorio che separa l’universo valoriale di fra’ Cristoforo da quello, turpe, di don Rodrigo si muove - sembra dirci Manzoni - la storia, cammino dolente ma inarrestabile dell’umanità verso il futuro. Genti e popoli in marcia, con le loro speranze, i loro progressi, le loro miserie, le loro cadute. Un percorso che - come è stato ricordato poc’anzi - Manzoni affida nelle mani della Divina Provvidenza. Ma che è quanto di più lontano da un rassegnato fatalismo, perché gli uomini, mediante la loro forza e le loro debolezze, sono e restano i costruttori del proprio presente e del proprio avvenire.

Figlio del suo secolo, Manzoni ha avuto la peculiarità   - che appartiene soltanto ai grandi - di gettare sulla società e sulla realtà storica del suo tempo uno sguardo lungimirante, capace di andare oltre, collegandosi – e spesso ispirandole - alle forze più vive e dinamiche della cultura italiana ed europea, pervase dall’aspirazione alla libertà, all’indipendenza, all’autodeterminazione. Un’aspirazione che non può essere disgiunta dall’opposizione e dalla ripugnanza nei confronti della tirannide, dell’abuso di potere, della violenza, dell’ingiustizia, specialmente contro i poveri, gli umili, gli indifesi.

Manzoni si è sempre sottratto, per la sua proverbiale riservatezza e anche per ragioni di salute, alla militanza politica in senso stretto. Ma è considerato, ben a ragione, un ispiratore e un propulsore del nostro Risorgimento e dell’Unità d’Italia. Ed è, a tutti gli effetti, un padre della nostra Patria.

Ricollegandosi alla grande tradizione della poesia civile, di Dante, Petrarca e Foscolo, ambiva a un’Italia unita, che non fosse una mera espressione geografica, una addizione a freddo di diversi Stati e staterelli, ma la sintesi alta di un unico popolo, forte e orgoglioso della sua cultura, della sua storia, della sua lingua, delle sue radici. Ve ne è traccia, efficace e di rimpianto, nel Coro dell’Adelchi.

Al poeta Lamartine, che aveva parlato sprezzante di “diversità” di “popoli” italiani, Manzoni rispose con una lettera sdegnata: «No, non c’è più differenza tra l’uomo delle Alpi e quello di Palermo che tra l’uomo sulle rive del Reno e quello dei Pirenei.»

Cattolico integrale, ma mai integralista, Manzoni ha affrontato la questione dell’ingresso e della presenza delle masse cattoliche all’interno del processo risorgimentale e di formazione nazionale, respingendo ogni tentazione di mantenimento di forme di potere temporale della Chiesa, da lui considerato storicamente superato, origine di corruzione e fonte di gravi mali. Fu Paolo VI - Prof. Bazoli - a ricordare che fu provvidenziale la perdita del potere temporale ad opera dello Stato italiano.

Anche quando queste tentazioni temporalistiche o neotemporalistiche si presentavano nella forma temperata e accattivante proposta da animi illuminati, come Gioberti e il suo amico, e padre spirituale, Rosmini. Da senatore, infatti, Manzoni non ebbe alcuna remora nel votare a favore di Roma capitale, nonostante la minaccia di scomunica papale.  

Si è molto parlato e discusso - a proposito di Manzoni – del suo cattolicesimo liberale; del suo punto di vista sulle masse popolari, del suo interesse - del suo amore, in realtà - per gli umili e gli oppressi. Francesco De Sanctis, in pagine illuminanti, definisce la concezione manzoniana come “eminentemente democratica”: «Non è il titolo - scriveva De Sanctis - e non la ricchezza, e non la dignità e neppure la scienza che crea l’interesse estetico; è il carattere morale, non privilegio di classe o di professione, ma partecipe a tutti: ideale democratico – aggiungeva De Sanctis, che è la negazione di ogni aristocrazia di convenzione.»

Conosciamo le riserve di Gramsci e di altri studiosi sul cosiddetto “paternalismo” manzoniano o sul suo vero o presunto “moderatismo”. Non spetta certo a me rievocare o valutare queste controversie politico-letterarie, peraltro influenzate dallo spirito dei tempi in cui si svilupparono. Ma vorrei condividere qualche breve riflessione sul Manzoni civile.

A proposito del Romanticismo e del Risorgimento italiano si cita spesso la triade Dio, Patria, Famiglia, quasi in contrapposizione alla triade della Rivoluzione Francese, Libertà, Eguaglianza, Fraternità. È una cesura eccessivamente schematica. Il romantico e cattolico Manzoni, in verità, non rinnega i valori della Rivoluzione Francese, anzi, li approva e li condivide, insistendo soprattutto sul quello più trascurato, la fraternità. La Rivoluzione Francese, secondo Manzoni, aveva tradito questi valori, perché, con il giacobinismo, si era trasformata nell’ideologia del Terrore e della violenza.

Nulla, per l’autore dei Promessi Sposi, è più nefasto delle teorie politiche astratte che immolano sull’altare della ragion di Stato i diritti di uomini o di intere popolazioni. Nulla, per lui, è più sacro della vita umana. La verità deve prevalere sulla menzogna, la tolleranza sull’odio, la pietà sulla violenza, la morale sul calcolo di convenienza.

A differenza di molti suoi contemporanei, che vagheggiavano improbabili ritorni a ere classiche e pre-cristiane, scrive che non bisogna provare alcuna nostalgia per “la barbarie degli antichi”, un’epoca caratterizzata da guerre di conquista, stermini, distruzioni, sopraffazioni, riduzione in schiavitù. Non c’è alcun quietismo, alcuna rassegnazione: Manzoni sostiene i moti di indipendenza nazionale, incoraggia i venti di libertà che spirano in Italia e in tante altre parti del mondo – non a caso nella Pentecoste ricorda America Latina, Irlanda, Libano e Haiti – giungendo, davanti alle aggressioni e alle ingiustizie, a teorizzare la legittimità della resistenza.

Ma - nella sua visione - è la persona, in quanto figlia di Dio, e non la stirpe, l’appartenenza a un gruppo etnico o a una comunità nazionale, a essere destinataria di diritti universali, di tutela e protezione. È l’uomo in quanto tale, non solo in quanto appartenente a una nazione, in quanto cittadino, a essere portatore di dignità e di diritti.

Colpisce quanto ricordato da Margherita Provana di Collegno, assidua frequentatrice di Manzoni, a proposito del triste fenomeno della schiavitù: Manzoni le confidò, infatti, che “benché l'America abbia il Governo più libero ed il Re di Napoli il più tirannico, pure, se gli avessero fatto scegliere di rinascere, o americano, o napoletano, avrebbe preferito di nascere napoletano, perché nulla esiste di peggio della mostruosa schiavitù.”

Nell’idea manzoniana di libertà, giustizia, eguaglianza e solidarietà si può scorgere una anticipazione della visione di fondo della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948. Una carta fondamentale, nata dopo gli orrori della Seconda Guerra mondiale, che individua la persona umana in sé, senza alcuna differenza, come soggetto portatore di diritti, sbarrando così la strada a nefaste concezioni di supremazia basate sulla razza, sull’appartenenza, e, in definitiva, sulla sopraffazione, sulla persecuzione, sulla prevalenza del più forte. Concetti e assunti che – come ben sappiamo - sono espressamente posti alla base della nostra Costituzione repubblicana.      

Dai diritti dell’uomo la concezione manzoniana si allarga a quella del diritto internazionale e dei rapporti tra gli Stati, dove si ritrova una critica lucida e serrata al nazionalismo esasperato. Perché la moralità, la fraternità e la giustizia devono prevalere sugli odi, sugli egoismi, sulle inutili e controproducenti rivalità.

Scrive Manzoni in un frammento delle Osservazioni sulla Morale Cattolica, pubblicato postumo: “Bisogna sentire e ripetere che la somiglianza che ci dà l’essere d’uomo è ben più forte che la diversità di nazione; che il Vangelo ci ha fatto conoscere che abbiamo un cuore grande abbastanza per amar tutti gli uomini; che gli sforzi di una nazione contro l’altra (…) son sempre piccioli, perché fondati sulla passione e non sulla ragione e sulla verità; sono inutili, perché non ottengono stabilmente nemmeno il fine che si propongono quelli che li fanno; sono impolitici, perché producono (…) l’indebolimento e il pervertimento dei popoli”.

Manzoni si spinge anche oltre, prefigurando la illiceità di accordi internazionali ratificati sulla testa dei popoli e degli Stati: in una lettera al genero Giovan Battista Giorgini, del marzo 1861, parla esplicitamente della “ingiustizia e la nullità morale di trattati stipulati da alcuni sugli affari d’altri, senza sentirli e con il solo titolo della forza, e dell’inaudita e iniquissima teoria che attribuiva a quegli alcuni … il diritto di costituire un diritto sopra gli altri.”

Per concludere, vorrei segnalare un ultimo aspetto che mi sembra di particolare attualità. Sono state scritte pagine illuminanti sulla sua vicinanza, l’empatia, la condivisione nei confronti delle masse popolari, che per la prima volta diventano protagoniste di un romanzo. Utilizzando una terminologia moderna, di oggi, possiamo parlare di un Manzoni certamente “popolare”, ma non “populista”. Il legame controverso che Manzoni stabilisce tra potere e opinione pubblica, tra giustizia e sentimenti diffusi, ci induce a riflettere - sia pure in tempi incommensurabilmente distanti - sui pericoli che oggi corrono le società democratiche di fronte alla diffusione del distorto e aggressivo uso dei social media, dell’accentramento dei mezzi di comunicazione nelle mani di pochi, della disinformazione organizzata e dei tentativi di sistematica manipolazione della realtà.

E, anche, sulla tendenza, registrabile in tutto il mondo, di classi dirigenti a assecondare la propria base elettorale o di consenso e i suoi mutevoli umori, registrati di giorno in giorno tramite i sondaggi, piuttosto che dedicarsi a costruire politiche di ampio respiro, capaci di resistere agli anni e di definire, in tal modo, il futuro.

Già nei Promessi Sposi, nei capitoli dedicati alla peste, Manzoni scriveva icasticamente a proposito di questi rischi: “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.

La “Storia della Colonna infame” - un capolavoro di letteratura civile, compreso e rivalutato soltanto a partire dal secolo scorso - ci ammonisce di quanto siano perniciosi gli umori delle folle anonime, i pregiudizi, gli stereotipi; e di quali rischi si corrano quando i detentori del potere - politico, legislativo, giudiziario - si adoperino per compiacerli a ogni costo, cercando soltanto un consenso effimero. Un combinato micidiale, che invece di produrre giustizia, ordine e prosperità - che è il compito precipuo di chi è chiamato a dirigere - produce tragedie, lutti e rovine.

Autorità, care studentesse cari studenti, Alessandro Manzoni ci ha regalato alcune delle pagine più belle e intense della nostra letteratura. Il suo altissimo senso morale, la sua ispirazione ideale, insieme umana e cristiana, ci è continuamente di riferimento e di sprone. Come tutti gli spiriti eletti e gli artisti universali, Manzoni parla tuttora all’uomo di oggi, alle sue inquietudini e alle sue ricerche di senso, con voce autorevole, ferma e appassionata.

Anche per questo, oggi, gli rendiamo omaggio.

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