(foto Ansa)

L'editoriale del direttore

Il dibattito sulle riforme mostra un nuovo rapporto tra Mattarella e Meloni

Claudio Cerasa

Opposizione divisa, premier che cambia, maggioranza che si sgambetta. Il dibattito sulle riforme istituzionali svela i nuovi rapporti della politica. Con un caso su tutti: l’inaspettato scudo offerto dal presidente del Consiglio al capo dello stato

Forma e sostanza. Le consultazioni volanti messe in campo da Giorgia Meloni sul delicato terreno delle riforme istituzionali sono lì a indicarci due temi che meritano di essere approfonditi. Il primo tema, ovviamente, riguarda la sostanza del dibattito. Le posizioni emerse in questi giorni sono ancora vaghe, scombinate e talvolta inafferrabili. Ma un punto di partenza esiste e vale la pena di illuminarlo. Il punto è questo: Meloni ha scelto di rinunciare alla bandiera del presidenzialismo e ha trovato con alcuni partiti dell’opposizione un elemento di convergenza intorno a una forma ancora tutta da definire di premierato. Una forma sintetizzabile in sei punti. Il premier, chiaramente, è colui che ha vinto le elezioni. Il premier, una volta scelto, si presenta subito alle Camere per illustrare il proprio programma (con o anche senza voto di fiducia, punto da concordare). Il premier, inoltre, sceglie i ministri senza negoziarli col presidente della Repubblica. Il premier, in qualsiasi momento, può revocare i ministri. Il premier, naturalmente, può essere sfiduciato, e in tal caso può rivedere il programma e la compagine ministeriale, ma ha, lui solo e solo lui, senza negoziato col presidente della Repubblica, il potere di scioglimento delle Camere. Infine, il premier, in alcune occasioni da studiare, per fare un passo lontano dall’attuale bicameralismo perfetto, ha il dovere di raccogliere la maggioranza convocando entrambi i rami del Parlamento.

 

La sostanza dei due giorni di discussioni, dunque, è più o meno questa. E al netto della fuffa che ha avvolto le consultazioni della premier è una sostanza che ha un suo interesse. Ma accanto a tutto questo c’è qualcosa, su questo terreno, che conta ancora di più. E quel qualcosa riguarda un dato che ha a che fare con i nuovi equilibri dalla politica, smascherati in modo eccezionale proprio dal dibattito sulle riforme istituzionali. Emerge così la volontà di Giorgia Meloni di trovare un modo per legittimare la propria leadership, e la propria  trasversalità, anche a costo di mettere da parte una promessa elettorale, come è stato per molto tempo il presidenzialismo (tema che oggi nei fatti non esiste più).

 

Emerge così la difficoltà con cui il gruppo dirigente di Giorgia Meloni tenta spesso senza successo e molto spesso senza argomenti di spiegare le ripetute svolte della premier (e i risultati si vedono). Emerge così la volontà della Lega di portare avanti una strategia che più che delle mani pulite potremmo definire delle mani alzate: noi restiamo delle nostre idee, sulle riforme, ma se tu vuoi cambiare idea, Giorgia adorata, non saremo certo noi a evitare che tu debba pagare da sola, e con la tua faccia, lo scotto delle promesse tradite, di cui oggi noi siamo i veri e più genuini custodi, senza rancore, con molti bacioni e con molti sorrisi (e se poi sarà necessario un referendum per ratificare l’eventuale riforma, problemi della premier: stai serena Giorgia). Emerge così, ancora, la presenza di un’opposizione preoccupata più di come fare opposizione alle opposizioni che di come fare un’opposizione di governo (non sapere governare una coalizione e accusare il governo di essere diviso: fatto). E in questo quadro, infine, emergono a loro volta diverse sfumature di anti melonismo. C’è l’anti melonismo dialogante, che punta a sfruttare la confusione delle altre opposizioni per provare a contare di più, anche con pochi parlamentari, e la posizione è perfettamente rappresentata da Renzi e Calenda, entrambi desiderosi di sfidare il governo a fare quello che ha promesso di fare, sulle riforme costituzionali: non sabotarle, ma finalmente farle. C’è l’anti melonismo modello Conte, ovviamente, anti melonismo convinto, duro, ideologico, “antifassssista”, ma incerto, al fondo, se continuare a cavalcare la protesta (pacifismo, no armi, meno Zelensky,  più Reddito di cittadinanza) o se provare a fare uno scatto per assumere posizioni più moderate (bicamerale, perché no). C’è poi l’anti melonismo modello Schlein – un anti melonismo ispirato cioè ai più classici princìpi della socialconfusione – che capisce che stare in mezzo a Renzi e Conte significa regalare a loro l’iniziativa politica, e non contare nulla, e che per questo tenta in tutti i modi di essere diverso dagli altri due modelli: non spostandosi sull’Aventino, come si dice, mostrando il proprio no alle proposte di Meloni, ma provando a porre alcune condizioni per aprire un dialogo, con il piccolo problema però di aver elencato finora una serie di condizioni incomprensibili ai più (e molti riformisti del Pd ormai capiscono più quello che vuole Meloni rispetto a  quello che vuole il Pd: provate a chiedere ai sindaci del Pd con chi stiano tra chi propone di costruire una riforma istituzionale ispirata al modello dei sindaci e chi dice che un giorno ci farà sapere che cosa ha intenzione di proporre).

 

Emerge così, ancora, che in quella che sembra, sul fronte Meloni, una scelta di campo decisa, strategica, ovverosia mettere da parte il presidenzialismo per trovare una mediazione più pragmatica, vi è anche un altro elemento importante da considerare che è questo: smentire quello che molti suoi follower avevano sostenuto in passato rispetto al futuro assetto del Quirinale. Si era detto, lo ricorderete, che Meloni avrebbe voluto scassare il sistema, puntando sul presidenzialismo, anche per delegittimare l’attuale capo dello stato e costringere così un giorno Mattarella alle dimissioni. E invece tra i messaggi su cui la macchina della comunicazione di Meloni ha molto insistito in questi giorni vi è un punto interessante: puntare sul premierato. e non più sul presidenzialismo, anche per costruire un muro intorno al Quirinale e al capo dello stato (e questo ci dice molto della qualità dei rapporti tra il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica: ottimi).

 

Dalla lettura in controluce del dibattito sulle riforme istituzionali emerge tutto questo, così come emerge la volontà della leader del centrodestra di rassicurare gli osservatori mostrando un volto non aggressivo. Ma anche la tempistica del dibattito, divenuto improvvisamente centrale nell’agenda meloniana, nonostante la presenza di una riforma importante in cantiere  (delega fiscale) e un’altra riforma annunciata come imminente (la giustizia), è interessante da osservare perché mostra uno degli scopi del percorso imboccato: usare l’arma delle riforme per dividere le opposizioni, guadagnare una tregua con gli avversari, offrire ai media armi di distrazione di massa e deviare il dibattito pubblico dai temi ostici come il Pnrr. Forma e sostanza. Sulla seconda, il risultato è  tutto da vedere. Sulla prima, la missione è compiuta

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.