Il Triangolo con Scholz. Così Meloni ha spinto Macron al disgelo

Simone Canettieri e Valerio Valentini

L'asse col cancelliere per ingelosire il presidente francese. Troppi gli interessi comuni tra Italia e Germania per non allarmare l'Eliseo. E intanto sull'epurazione di Lissner al San Carlo di Napoli s'accende una disputa diplomatica che rischia di coinvolgere pure il Quirinale

Non fosse di diplomazia, che si parla, ma di fotoromanzi, si direbbe che lei, di fronte agli sgarbi veri o presunti di lui, s’è lasciata corteggiare dall’altro, stando attenta che lui lo sapesse, cosicché al dunque lui, il supposto screanzato, s’è ingelosito ed è tornato a corteggiarla. Solo che purtroppo è appunto di diplomazia, che si parla. E dunque è tutto meno spassoso di così. Ma sta di fatto che in questo strano triangolo degli equivoci, davvero Giorgia Meloni aveva cercato sponde con Olaf Scholz, nelle ore in cui il rapporto d’intesa con Emmanuel Macron s’era incrinato di nuovo. Con veleni e malintesi che avevano coinvolto, inevitabilmente, perfino il Quirinale.

E insomma quando martedì sera, arrivando a Reykjavik, per il Consiglio d’Europa, il presidente francese ci ha tenuto ad avviare il disgelo, spiegando che “sui migranti l’Italia non va lasciata sola”, i consiglieri di Meloni hanno subito mostrato il ghigno di chi pretende di saperla lunga: “Visto che la mossa ha funzionato?”. 
La mossa, a dirla in breve, è stata appunto quella di replicare alle polemiche innescate da Parigi rendendo pubblica la notizia dell’imminenza della visita di Scholz a Roma, che è stata già fissata nell’agenda dei due leader, intorno al 10 giugno. E siccome nella diplomazia la forma è sostanza, c’è voluto poco perché all’ambasciata francese notassero come l’arrivo del cancelliere, che col suo viaggio rende il favore ricevuto nel febbraio scorso, quando Meloni era volata a Berlino, configura un doppio smacco verso l’Eliseo, se è vero che da quelle parti sono ancora in attesa che la presidente del Consiglio si rechi per il canonico viaggio inaugurale del mandato a Palazzo Chigi. “E però non ci risulta che né Scholz, né i suoi ministri, abbiano insultato l’Italia e il suo governo”, sibilano i collaboratori di Meloni, ricordando come – sia pure dopo molto tentennare, e dopo un ritardo così ostinato che aveva prodotto anche qualche irritazione al Colle – la missione parigina era già pronta, prima che Gérald Darmanin, ambizioso ministro dell’Interno transalpino, pensasse bene di riaprire le ostilità.

Dopodiché, oltre il galateo, ci sono gli affari. E se è vero che sul Patto di stabilità le distanze tra tedeschi e italiani sono consistenti, se è vero che proprio il ministro delle Finanze Christian Lindner è il più accanito oppositore dell’allentamento dei vincoli di bilancio prospettato dalla Commissione europea, è vero pure che gli interessi comuni tra Roma e Berlino sono tanti. Riguardano il settore, sempre delicato, della Difesa, come dimostra la visita di due giorni fa di Guido Crosetto al suo omologo Boris Pistorius (con prospettive di investimenti e perfino addestramento congiunti), e pure quello dell’automotive, dossier su cui Adolfo Urso ritiene strategica una collaborazione serrata con la Germania. E poi il Piano Mattei e la costruzione di infrastrutture per il trasporto di gas e idrogeno made in Africa verso il Nord Europa, e poi il nodo dei trasporti attraverso il Brennero: tutte sfide su cui Meloni e Scholz vanno cercando nuove convergenze.

E allora forse si spiega davvero un po’ anche alla luce di questa forma di paura, di questa strana gelosia, l’ansia di Macron di riaprire i canali del dialogo. Consapevole che quella tra Roma e Parigi è un’intesa tanto riluttante quanto obbligata. Lo sa del resto pure Meloni, la quale la zuffa diplomatica l’ha liquidata due giorni fa con parole di misurata perfidia: “Non entro nelle dinamiche di politica interna di altri paesi”. Dando legittimità, così, ai sospetti che albergano anche alla Farnesina: quelli, cioè, su una cacofonia troppo evidente per essere casuale, nel governo francese. Sospetti che hanno trovato conforto anche ieri: quando, poche ore dopo la distensione di Macron, il solito Darmanin ha ribadito le sue ragioni: “L’estrema destra fa promesse sconsiderate – ha detto il ministro – e poi si rende conto che la realtà è più complicata. Il mio attacco non è contro gli italiani, ma contro le personalità politiche: e si ha il diritto di dire che sull’immigrazione Meloni, così come Le Pen, non offrono affatto un buon modello”.

Solo che nel gioco degli equivoci, è fatale che anche in Francia si diffondano delle strane paranoie. Come quella secondo cui l’epurazione del sovrintendente del San Carlo di Napoli Stéphane Lissner, con una norma contra personam, sia da considerarsi come un atto ostile contro la Francia più che una mossa, per ora non andata in porto, di trovare un posto a Carlo Fuortes, manager Rai dimissionario. Un pasticcio che avrebbe fatto arrivare le proteste della diplomazia francese su su fino al Colle. Versione smentita dal Quirinale che sui rapporti tra Parigi e Roma continua a puntare. In attesa che i trattati fra i due paesi si concretizzino, Sergio Mattarella a giugno è atteso a Parigi al museo del Louvre per la mostra “Naples à Paris”.
   

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