Foto di Fabio Frustaci, via Ansa 

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Il bel coup de théâtre di Renzi alla guida del Riformista

Andrea Minuz

La svolta della nuova direzione proietta l’ex rottamatore verso una nuova èra: il veltronismo. L'impennata futurista di una carriera sempre concitata

Il Terzo polo non decolla, anzi frana, ma intanto si prende un giornale. L’annuncio arriva su Twitter, come all’epoca della gran scalata a Palazzo Chigi, “arrivo arrivo!”. Matteo Renzi nuovo direttore del Riformista è una notizia inaspettata, un coup de théâtre, un’impennata futurista di una carriera sempre concitata, entrate e uscite di scena fulminanti, ribaltoni politici, conferenze a Dubai, cattedre a Stanford, libri, documentari sul Rinascimento, promesse di andarsene via, mollare tutto e invece no.

Giusto pochi giorni fa aveva detto, “adesso mi sono preso un po’ più di tempo per me, per studiare, per leggere, per perdere quei dieci chili che ho preso”. Ma questo è ormai uno dei grandi mantra del renzismo e anche parte del suo fascino: sentirsi liberi di cambiare idea, fare e disfare, progettare, tornare sui propri passi. Ci si può riconoscere facilmente in questa irrequietezza, che infatti ci è sempre piaciuta. A quarant’anni Renzi era soprattutto Twitter, cameo a “Amici” di Maria De Filippi e Leopolde con l’iPad.

Verso i cinquanta, ecco un più consono e vecchio quotidiano. Forse era questa l’essenza della rottamazione. Però sarà certo difficile rimettersi in forma, perdere quei dieci chili in più, i direttori di giornale son sempre appesantiti dallo stress, mangiano tardi e male (tranne il nostro, che invece è un figurino). Se in Italia non puoi fare le riforme, puoi sempre dirigere il Riformista, immaginare mondi e culture liberali e moderate lì dove c’è più che altro sovranismo, paura della modernità, radicalismo, sindacalismo conservatore (e vorremmo subito da Renzi un editoriale contro il Garante che ci leva ChatGPT, più commento in terza pagina di Baricco sul chatbot “musa per una nuova narrativa”). 

C’è chi sbandiera un conflitto d’interessi per questo ennesimo incarico. Renzi replica evocando il precedente di Mattarella, direttore del Popolo e parlamentare Dc. Il paragone però non regge. Siamo semmai, bisognerebbe ammetterlo, dalle parti di Veltroni. Partiti diversissimi, i due finiscono ormai per assomigliarsi. Strada facendo il renzismo è diventato un veltronismo due punto zero, certo più accattivante, più siliconvallico, più “sul pezzo”, ma con le stesse skill. Anche Veltroni doveva andare in Africa, poi è rimasto qui, snocciolando romanzi, conferenze, editoriali, film, documentari a getto continuo.

Ci siamo tutti formati una coscienza cinematografica coi Vhs che Veltroni allegava alla sua Unità, e ora chissà, magari avremo anche “narrazioni” e “immaginari” in allegato al Riformista, poi un giorno l’esordio alla regia (bisogna pensare però anche a Calenda: direttore di Parioli Pocket come inserto del sabato?). Sarà comunque anche qui “effetto Schlein”. Anche tutto questo ribaltone nei quotidiani di sinistra, insomma. Renzi al Riformista, Sansonetti a l’Unità, e i rumors (smentiti) su una possibile trattativa tra De Benedetti e Giovanni Arvedi, il re dell’acciaio, per prendersi una grossa fetta di Domani.

A De Benedetti pare non piaccia perdere soldi. Alfredo Romeo, editore del Riformista e dell’Unità, si fa invece meno scrupoli: “L’editoria difficilmente è un affare vantaggioso”, dice, “ma non penso che il profitto possa essere l’unico scopo e l’unico interesse di un imprenditore”. E il Riformista messo in mano a Renzi ci piace, può diventare una testata turbogarantista, se non altro per vedere l’effetto a Travaglio che fa. L’Unità invece è accanimento terapeutico. Però forse sbagliamo. Si rivedono con Schlein le bandiere rosse, l’identità a sinistra, la nostalgia del Pci che risuona malinconica negli imminenti film di Moretti e Veltroni. E allora perché no, un’ennesima Unità che ritorna dalle tenebre, come un Frankenstein del giornalismo italiano.

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