Facce dispari

Antonio Auriemma, il cacciatore di prime edizioni

Francesco Palmieri

Intervista al decano dei librai napoletani. Tra i suoi "clienti" Giorgio Napolitano, Eduardo De Filippo ed Elena Croce. Ricordi dallo scaffale ("Gerardo Marotta mi presentò a Gadamer")

Certe sere, periodicamente, due distinti signori di una certa età percorrevano a braccetto lento pede la Galleria Umberto I di Napoli; quello a sinistra, il segaligno, cappello e sciarpa in tutte le stagioni e un catalogo aperto fra le mani, s’arrestava ogni tanto per scandire un numero (“38! 120! 198!”); l’altro, di complessione gioviale e sguardo vispo, annuendo appuntava la cifra su un foglietto. Protagonisti del peripatetico rituale, che si ripeté per anni, l’avvocato Gerardo Marotta, fondatore dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, e Antonio Auriemma, decano dei librai napoletani. Varcata la soglia degli ottanta, don Antonio non ha alcuna voglia di smettere benché, dopo la dipartita di Marotta, nessuno abbia condiviso con lui lettura altrettanto “lunga e dolce” di un catalogo, come Giuseppe Pontiggia auspicava ai bibliofili e a se stesso: “Niente uguaglia la gioia di cercare – l’occhio concentrato e mobile del vizio – i titoli bramati, differendo spesso l’attimo fatale, per aumentare l’ebbrezza o attenuare la delusione”.

 

Nostalgia di quelle sere in Galleria?

Tanta. Appena usciva un nuovo catalogo, andavo dall’avvocato Marotta a Palazzo Serra di Cassano. Sbrigati gli impegni, mi portava a cena in trattoria dando una prima scorsa generale alle pagine. Quindi la passeggiata in Galleria con il rituale della scelta, che a volte lo rendeva entusiasta, per esempio quando trovava un volume di Adolfo Omodeo. Se ce n’erano più copie, le ordinava anche per regalarle. Fu un sodalizio felice. Mi presentò al filosofo Hans-Georg Gadamer dicendo: “Questo è il mio libraio”.  Mi lusingò, non me lo meritavo.

 

Però, modestia a parte, nel suo passato conta una clientela illustre.

È stato inevitabile: ho trascorso più di vent’anni alla Guida di Port’Alba, poi da Gaetano Colonnese e ora collaboro con Nunziante Pironti. Abitualmente passava in libreria Giorgio Napolitano, che comprava la letteratura del momento; Eduardo De Filippo, burbero ma pronto a sciogliersi in grande cordialità quando scovava una vecchia locandina teatrale; Michele Prisco, di loquace simpatia; Elena Croce, che mi soprannominò “il libraio gentiluomo”. Modestia a parte.

 

Come cominciò la sua carriera?

Frequentavo ancora le scuole elementari quando un compagno di classe, che lavorava come fattorino da Guida, mi disse che cercavano un nuovo aiutante. Ho cominciato spazzando i locali, portando le colazioni, facendo le consegne. Poi, via via, sono rimasto vittima del fascino dei libri.

 

Memorie di quando li portava a domicilio?

Una gavetta istruttiva che permetteva di arrotondare con le mance. Non sempre però: Riccardo Ricciardi ci compensava con un’arancia o una mela; Domenico Rea non dava neppure una moneta; Luigi Incoronato, che nel ’67 si tolse la vita, era gentile e sempre stanco, d’una tristezza assente. Alla sua morte orecchiai una discussione in libreria tra Prisco, Compagnone, La Capria e Rea su una colletta per comprargli una corona. Indovini chi era contrario alla spesa.

 

Lei sarà ricordato per il suo opus magnum: la guida bibliografica alle prime edizioni della letteratura italiana del Novecento.

Sono 2.500 per 322 autori: ho impiegato trent’anni per raccoglierle, ma rimettere assieme il Novecento narrativo era il mio sogno. Tengo a precisare che ho la licenza elementare, perciò tutto è stato frutto della passione e dell’esperienza maturata dal confronto con accademici, esperti, collezionisti.

 

Quando tramonta il Novecento italiano?

Sono convinto che gli ultimi grandi siano stati Calvino e Umberto Eco.

 

Qual è la sua lettura prevalente?

Naturalmente, i risvolti di copertina. Offrono una prima idea dell’opera e spesso, leggendola, è corrispondente.

 

Qual è stato il periodo più eccitante in libreria?

Il ’57-’58. Prima la pubblicazione del “dottor Zivago” di Pasternak, poi “Il Gattopardo”. Non ho più rivissuto la sensazione di uscite così importanti.

 

Quanto vale una prima edizione del “Gattopardo”?

Ha raggiunto anche duemila euro e ricordo di averne venduto due copie persino in Francia, ma con l’avvento di Internet è impazzito il mercato. I librai al principio erano contenti perché potevano vendere online qualcosa in più. Poi hanno capito che è una corsa al ribasso dove chiunque può improvvisarsi nel mestiere: cinquant’anni di esperienza non servono più.

 

I lettori se ne giovano.

Ne è certo? Chi trova in libreria una prima edizione di Manganelli a 50 euro magari non la compra, perché va su Google e la scova alla metà. Senza badare alle condizioni, alla rarità, inoltra l’ordine e gli arriva la copia in uno stato deplorevole. Il pubblico è disorientato, anche per la rarefazione dei bibliofili: su dieci che si sono perduti nel tempo, ne recuperiamo uno o due nuovi, specie tra chi colleziona Novecento. A volte penso: meno male che sono vecchio.

 

Ma s’entusiasma ancora.

Be’, sarà triste dirlo ma il momento più emozionante è quando acquisiamo dagli eredi la biblioteca di un privato. È impagabile il godimento di aprire le scatole e le buste in libreria per vedere cosa viene fuori. Qualche rarità, una prima edizione… In fondo è anche una gioia dare una seconda vita ai libri.

 

È l’acquirente che sceglie un’opera o è il contrario?

Se parliamo di esoterismo del libro, per chi ci crede funziona.

 

La prima edizione che ha più amato?

“I cavalli bianchi” di Aldo Palazzeschi, trentacinque copie stampate da lui stesso.

 

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