La scritta sul muro di Viterbo

La polemica

Essere o non essere ebrei. Dove Elly (e non solo) si è incartata

Emanuele Calò

La scritta di Viterbo diretta alla neosegretaria del Pd è il corollario di una serie d'approcci sbagliati. Non basta sostituire l'antisemitismo con un filosemitismo pietoso e ipocrita

Su Mosaic/Jewish News Syndicate del 6 marzo 2023, Ben Cohen commenta: tecnicamente, senz’altro (Elly Schlein) ha ragione, in termini di Halakhah, la legge religiosa ebraica, non è ebrea. Ma secondo la definizione di ebreo delle infami leggi razziali naziste, lo è, e inoltre avrebbe diritto alla cittadinanza israeliana secondo la Legge del Ritorno; le obiezioni letterali della Schlein suggeriscono che gli epiteti antisemiti non la toccano perché non è ebrea e che è quello a disturbarla. L’implicazione è che ciò sarebbe più comprensibile se fossero diretti a un soggetto con due genitori ebrei. Ma è più sinistro che dica di avere un naso largo, ma che è organicamente italiano. Qui, sempre secondo Cohen, sarebbe implicito che si lamenta di essere associata con gli ebrei. Elly Schlein (se ho raccolto una citazione esatta, e quindi accolgo volentieri una smentita) avrebbe pure dichiarato che “per quanto riguarda la religione, è vero, mio padre è ebreo, non è particolarmente credente né praticante e non lo sono neanche io, perché le due cose non sono automatiche”. Aggiungo il caveat, perché essere ebrei non dipende dal grado di osservanza. Mezzo secolo addietro leggevo su Nueva Siòn: nessuno dice “sono nero, ma non praticante”, e gli ebrei come me si sentono molto vicini a chi è di pelle scura.

 

Ora, comprendo i commenti, in buona parte pesanti e ingiusti, di Ben Cohen, ma non posso condividerli, perché non si può giudicare alcunché basandosi né sulle infami leggi razziali né sulla lungimirante Legge del Ritorno e men che meno desumendone un significato malevolo. Se il commento di Cohen è troppo antipatico per essere lecito e, in ogni caso, perché chi scrive lo accetti, nondimeno ipotizzo che Elly Schlein possa essersi bonariamente incartata (visto che il termine è ammesso dalla Treccani) perché, se la lettura psicoanalitica dell’ebreo Sigmund Freud fa legittimamente parte della nostra cultura, sembrerebbe inidoneo chiarire in sede di risposta all’antisemitismo che non si è ebrei e che il suo naso non è ebraico, non essendo possibile sostenere scientificamente che esista la nasometria e che, al suo interno, vi sia una branca ebraica, tanto più che non solo Elly Schlein è una validissima studiosa, ma che il suo ambiente è fatto da stimatissimi intellettuali, addirittura quattro: madre, padre, fratello e sorella. I precedenti non sono da trascurare: nella Francia occupata dai nazisti, consigliavano alle figlie di Irène Némirovsky che fuggivano dai loro carnefici: “Cachez votre nez”. Come replica agli odiatori, tirar fuori la Halakhah e finanche i nasi, pare interessante addirittura a modesti studiosi come me,  non tanto per quel che dice quanto per i ricchi sottintesi, che non sono attinti dal citato Ben Cohen ma, più sommessamente, dall’imponente messe di studi sull’identità ebraica. 

 

Potremmo attingere alle opinioni di Anna Momigliano (Haaretz feb. 23, 2023) laddove scrive della Schlein: “Perché questa donna politica italiana in ascesa minimizza le sue radici ebraiche?”, e si domanda come mai, mentre negli Usa due legislatori conservatori vengono accusati di inventarsi degli avi ebrei, questa (brava) politica liberal italiana, abbia scelto, sempre secondo il personalissimo avviso di Haaretz, di “downplay” (minimizzare) i suoi il più possibile? Allora, quale dovrebbe essere la risposta? Potremmo accennarle qualche possibile risposta, attinta dal nostro nuovo libro La questione ebraica nella società postmoderna (ESI, 2023): Luigi Luzzatti, presidente del Consiglio, disse “Io sono nato israelita e ci ritorno fieramente ogni volta che mi si rimprovera di esserlo e che l’esserlo mi espone a un pericolo. Vi è una dignità a sostenere il peso della persecuzione e sarebbe vile scansarlo. Ma fuori di questo, la mia educazione, le mie aspirazioni intendono a un largo cristianesimo, come traspare dai miei scritti”. Santiago Amigorena, autore de Il ghetto interiore (Neri Pozza, 2020) dichiara a Stefano Montefiori (La Lettura, CdS, 27/9/2020) “Io di solito non mi sento particolarmente ebreo, anche se lo sono, mia madre è ebrea. Non sento un particolare attaccamento a Israele. Ma di fronte a un atto di antisemitismo sono ebreo”. Il più famoso Ilya Ehrenburg diede un’analoga risposta: “Sono uno scrittore russo ma, finché vi sarà un singolo antisemita sulla terra, quando mi si chiederà la nazionalità, risponderò ‘ebreo’”. La risposta è dignitosa, anche se ha la controindicazione che la decisione di quando sentirsi ebreo finisce per essere affidata all’antisemita. I tre citati, sono ebrei. Ma anche chi non è ebreo o lo è solo in parte, come Enrico Mentana, nel 2014 così dice: “Da figlio di madre ebrea e pur essendo stato battezzato, mi ritengo molto più ebreo di tanti ebrei che ho conosciuto. I miei figli sanno che, tra un trasloco e l’altro, una cosa che mi porto sempre dietro è il diario di mia nonna materna, scritto quando era costretta a dormire nei fienili per sfuggire ai rastrellamenti”.

 

Dopo aver stilato queste righe, mi ritrovo con la notizia della lurida scritta apparsa su un muro a Viterbo: “Schlein… la tua faccia è già un macabro destino” e penso che finora sia stato dannoso consentire il filosemitismo pietoso, basato su questo sottinteso: sì, Israele e gli ebrei sono quel che sono, ma non bisogna infierire. La scritta di Viterbo non è che il corollario di approcci sbagliati, è la punta dell’iceberg di attacchi sottili ed educati, dove muore la distinzione fra alta e bassa cultura. Di fronte a questa scritta infame, sarebbe ora di tirare fuori dai cassetti la teoria critica, sostenuta non a caso soprattutto da ebrei, il cui sotto testo è “nous sommes tous des assassins”.

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