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scenari elettorali

Che cosa ci diranno queste regionali su governo e opposizione

Claudio Cerasa

Una vittoria forte di FdI sarebbe il lasciapassare per continuare sulla strada della moderazione e, per Salvini, l’opportunità per allontanarsi dal vecchio salvinismo. Il voto come test anche per il centrosinistra: vale la pena presentarsi divisi alle elezioni?

Ci sono almeno cinque motivi diversi per cui il voto delle regionali presenta un qualche elemento di interesse politico che prescinde dal futuro, che appare scontato, delle due sfide elettorali di Lazio e Lombardia. Cinque motivi che hanno a che fare, tutti, con il destino dei principali leader politici che oggi, di fronte all’esito delle regionali, si ritroveranno a ragionare sui propri punti di forza e sui propri punti di debolezza.

 

L’osservata numero uno, naturalmente, è Giorgia Meloni, che se otterrà un successo sia nel Lazio sia in Lombardia potrebbe essere non solo la vera vincitrice di questa tornata, ovvio, ma anche l’unico leader del centrodestra in grado di aumentare i propri consensi rispetto al passato, dettaglio non da poco.

 

Partiamo da quel che è stato, per capire quel che potrà essere.

 

Nel Lazio, alle ultime politiche, Fratelli d’Italia ha ottenuto il 31,4 per cento, Forza Italia ha ottenuto il 6,9 per cento, la Lega il 6,1 per cento. In Lombardia, sempre alle ultime politiche, Fratelli d’Italia ha ottenuto il 27,6 per cento, la Lega il 13,9 per cento, Forza Italia il 7,9 per cento. I risultati a cui molti partiti si aggrapperanno, per dire “non siamo scesi così tanto”, saranno dunque questi, quelli del 2022. Ma il film, per essere compreso, merita di avere un’inquadratura più larga e può essere dunque utile mostrare qual era la situazione di partenza nel Lazio e in Lombardia cinque anni fa, alle ultime regionali. All’epoca, in Lombardia, la Lega viaggiava intorno al 29,5 per cento, Forza Italia viaggiava intorno al 14,3 per cento mentre Fratelli d’Italia viaggiava intorno a un misero 3,4 per cento. E sempre nello stesso anno, nel Lazio, la Lega aveva il 9,9 per cento, Forza Italia il 14,6 per cento, Fratelli d’Italia l’8,6 per cento. Al contrario di quel che si sostiene, però, vincere troppo, per Meloni, sarebbe tutto tranne che un problema, “un rischio”, come si dice. E avere anzi un riconoscimento elettorale importante per come ha gestito i suoi primi cento giorni di governo – molta continuità con il passato governo, molta discontinuità con il passato del centrodestra, politiche identitarie concentrate quasi esclusivamente sulle bandierine, infortuni diplomatici a parte in Europa – potrebbe spingere Meloni a continuare a seguire una traiettoria che appare consolidata: la strada della moderazione sui grandi temi. Potrebbe essere così per Meloni, ovviamente. Ma, sorprendentemente, potrebbe essere così anche per i suoi alleati, che di fronte a una netta affermazione del partito della premier avrebbero qualche ragione in più, nei prossimi mesi, per convincersi che il vero elettorato in movimento, in Italia, quello da conquistare, da sedurre, da coccolare, non è tra chi è alla ricerca di una protesta credibile ma è tra chi è alla ricerca di una proposta all’altezza delle sfide dei tempi. E sulla base di questa convinzione, gli alleati di Meloni avrebbero così una ragione in più per incalzare la presidente del Consiglio non sulla linea del populismo ma sulla linea della competizione sul tema dei temi: l’agenda della moderazione. Immaginare due partiti nati populisti che si rincorrono per dimostrare chi è il partito meno populista potrebbe risultare buffo, e persino surreale, ma il risultato delle regionali a questo potrebbe portare. Potrebbe ulteriormente convincere Meloni a mettere da parte, come scrive Alessandro Campi nel suo ultimo libro, il sovranismo cattivo, il protezionismo, i muri che si alzano, le barriere che si issano, e potrebbe portare il governo a issare la bandiera del sovranismo buono, quello della difesa dell’interesse nazionale, un interesse perseguibile, come speriamo abbia capito Meloni, solo difendendo l’unica vera sovranità con cui l’Italia può sentirsi al sicuro rispetto alle minacce esterne: l’Europa. E’ un test sulla leadership di Meloni, dunque, il passaggio elettorale delle regionali.

 

Ma lo è anche sulla capacità di Matteo Salvini di riuscire a governare un ulteriore calo di consensi, che potrebbe non tardare a manifestarsi. E il tema in questo caso è il seguente: riuscirà Salvini a convincersi che lo spazio che può trovare la Lega, nel futuro, è uno spazio diverso da quello presidiato nel passato ed è lo spazio di un partito che non può non proiettarsi da qui al 2024 all’interno di un contesto che deve portare  la Lega  ad avvicinarsi un po’ di più al modello Ppe e di allontanarsi un po’ di più dal modello AfD? Sarà in grado, insomma, Salvini di resistere alla tentazione di presidiare, nei prossimi mesi, lo spazio lasciato sguarnito da Meloni, nella difesa del nazionalismo, e di traghettare la Lega lontana dal vecchio salvinismo? E’ una sfida interessante questa, così come sarà una sfida interessante quella che andrà ad attraversare il centrosinistra, che verosimilmente, anche a questo giro, capirà che di fronte a un centrodestra unito avere un centrosinistra disunito è il modo migliore per avere ancora a lungo un centrodestra vincente. E da questo punto di vista, la campagna elettorale del centrosinistra, e in particolare del Pd, non poteva essere più disastrosa di quello che è stata. In Lombardia, sceglie di allearsi con un partito che conta poco in regione, come il M5s, per mostrare l’irrilevanza di un partito che in quella regione qualcosa conta, ovvero il Terzo polo.

 

Nel Lazio, invece, sceglie di non allearsi con un partito con cui il Pd ha governato quasi per quattro anni, il M5s, e decide di andare solo con un partito, il Terzo polo, con cui difficilmente il centrosinistra riuscirà a ottenere qualcosa di meglio di un premio come miglior attore non protagonista (ma chissà). Le regionali serviranno dunque a misurare quanto i due partiti potenzialmente alleati del Pd saranno in grado di essere decisivi per non far vincere la propria potenziale coalizione. Ma saranno un test anche per il Terzo polo, di fronte al quale si andrà verosimilmente a porre un dilemma: il tentativo di costruire un’opa ostile sul Pd, opa volta a dimostrare che il Pd altro non è che una costola del M5s, è un tentativo che può essere portato avanti a prescindere dai risultati che questa opa comporta, ovverosia contribuire a dividere il centrosinistra facendo aumentare le possibilità di vittorie future del centrodestra? Il Terzo polo, come abbiamo già detto, gioca una partita a parte, tutta finalizzata a raggiungere alle europee del 2024 un risultato importante, per arrivare a tallonare il Pd, cosa non impossibile, ma la vera sfida che si presenterà di fronte agli occhi di Calenda e Renzi, dopo queste regionali, sarà provare a impostare un ragionamento di questo tipo: avere un centrosinistra disunito, aiuta a combattere il centrodestra o aiuta a rafforzarlo? E la stessa domanda si porrà, con forza, nel Pd: può avere un futuro questo partito se non farà tutto il necessario per trovare un punto di incontro tra partiti distanti, sì, ma che inevitabilmente su alcune battaglie, da qui ai prossimi anni, dovranno presentarsi necessariamente uniti? Il tempo per riflettere c’è, elezioni importanti da qui al 2024, salvo le regionali in Friuli Venezia Giulia, non ci saranno, e anche alla luce di quel che potrebbe capitare oggi alle urne (si vota fino alle 15) è evidente che la partita del prossimo segretario del Pd si presenterà in modo chiaro. Come si fa a trovare un modo per non essere una copia sbiadita degli altri partiti d’opposizione? E come si fa a inventarsi una qualche iniziativa utile a fare l’unica cosa che serve oggi al centrosinistra italiano, ovvero essere un partito pivot, un partito tenda, un partito collante, un partito in grado di dividere gli avversari senza continuare a dividere i propri alleati? La vera sfida, per il centrosinistra, regionali a parte, sarà questa. Iniziare a pensare un po’ meno a ciò che il centrosinistra deve essere e iniziare a pensare un po’ di più a ciò che il centrosinistra deve fare per uscire dalla sua irresistibile tentazione di coltivare una nuova vocazione minoritaria. Buon voto.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.