Dal machete al bisturi. La zuffa sul Tesoro tra Lega e FdI diventa una mezza farsa, e Giorgetti si affida a Rivera

Valerio Valentini

Crosetto ritratta sullo spoils system. Salvini si oppone alle scorribande meloniane. Il ministro dell'Economia vuole difendere ancora il direttore generale del Tesoro, ma studia intanto una soluzione in continuità: Stefano Scalera. Le tensioni nella maggioranza sulle nomine: Fazzolari e Foti fanno arrabbiare il Mef

Più che il machete, il bisturi. Doveva essere la rivoluzione, pare invece che finirà con un giro di valzer. Il solito. Giancarlo Giorgetti, del resto, agli accessi di furore dei suoi colleghi di governo di FdI contro il deep state non ha mai dato troppo credito. Perché non è il Mef, dice, il posto dove si possono fare azzardi o esperimenti. Dunque forse un cambio della guardia al Tesoro ci sarà, se davvero Giorgia Meloni lo ritiene indispensabile. Ma la transizione sarebbe comunque dolce, indolore: magari con un periodo non breve di affiancamento. E non è un caso che tra i principali indiziati per la sostituzione di Alessandro Rivera c’è quello Stefano Scalera che dell’attuale direttore generale è amico e stimato collega. “Serve competenza e affidabilità”, ripete Giorgetti. E fosse per lui, davvero se la risparmierebbe l’incognita dell’avvicendamento. Perché i contatti di Rivera a Bruxelles, la sua consuetudine con gli uffici tecnici e le cancellerie europee, sono una garanzia.

E di quella garanzia Giorgetti s’è già servito nel suo esordio all’Ecofin, così come nelle trattative in ambito di G7 e di G20. Se ne servirà anche anche al prossimo 18 gennaio, a Davos, per il World economic forum.  E anzi il rapporto s’è andato consolidando, tra i due. Forse proprio perché, come maliziosamente racconta il ministro, l’ansia di possibili rimozioni induce tutti a farsi più malleabili. 

E però a Palazzo Chigi finora sono rimasti tetragoni. Giovan Battista Fazzolari, gran suggeritore della premier, con amici di partito già settimane fa era stato categorico: “Io, sapendo che dovremo andare a combattere col coltello tra i denti in Europa, non ce lo voglio uno che fa il tifo per Bruxelles anziché per l’Italia”. Tempi certi, dunque: “Prima chiudiamo la legge di Bilancio, poi interveniamo, perché a primavera ci sono le nomine delle partecipate”. E non a caso il primo a imputare alla scarsa collaborazione dei mandarini del Mef gli inciampi tecnici sulla finanziaria era stato il capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti. E quando dalle opposizioni gli fecero notare che, quando pure fosse stata questa la causa, Giorgetti non ci avrebbe comunque fatto una bella figura, lui si lasciò scappare uno sbuffo di troppo: “Appunto, forse ora anche lui si renderà conto” (con conseguente arrabbiatura del ministro stesso, giunta fino a Palazzo Chigi).

Tutto predisposto, dunque. O almeno così pareva. Finché due giorni fa Guido Crosetto, lo stesso ministro della Difesa che aveva ufficializzato l’avvio del repulisti, ha riposto nel fodero il machete brandito contro i funzionari pubblici sgraditi, riabilitando d’incanto non solo Rivera, ma anche quel Biagio Mazzotta, capo della ragioneria generale, che era l’altro obiettivo sensibile per FdI: “Rivera e Mazzotta? Rappresentano il meglio della dirigenza pubblica italiana”, ha spiegato Crosetto ad Avvenire. Indietro tutta. 

Sarà forse perché, come dalle parti di Giorgetti avevano lasciato filtrare, la radicalità che si pretende dagli altri bisogna poi applicarla in prima persona. E insomma sarebbe stato troppo facile, per i leghisti, fare l’elenco di tutti i tecnici dei dicasteri meloniani salvaguardati dallo spoils system. Ed è significativo il mandato del silenzio tassativo che Matteo Salvini ha imposto ai suoi, sulla faccenda: il capo del Carroccio ha garantito a Giorgetti sostegno, nel tentativo di difendere il Tesoro dalle mire di FdI. E del resto, se discontinuità doveva esserci, la si sarebbe potuta attuare già quando si definirono le squadre di fiducia dei nuovi ministri, e si preferì però, in una dozzina di casi, rinnovare la fiducia ai capi di gabinetto di epoche politiche che si pretendeva di voler archiviare.

Perché a conoscere le macchine contorte della burocrazia ministeriale, in Italia, non sono tantissimi, e perché, per i pochi davvero capaci rimasti fuori dal giro, il tetto a 240 mila euro non incoraggia a entrarci, in quel giro. Il che vale soprattutto per il ruolo di dg del Tesoro. Se davvero Meloni vuole lo scalpo di Rivera, ormai forse più per un puntiglio politico, Giorgetti cederà. Ma i nomi che sta vagliando come possibili sostituti sono tutt’altro che espressione di un mondo altro a quello che finora ha indirizzato la macchina del Mef. Non a caso il più accreditato, in queste ore, pare essere Stefano Scalera. Che è  uomo trasversale ai partiti e ai governi: uno che è stato consigliere a Palazzo Chigi con D’Alema e dirigente al Tesoro con Tremonti, che ha collaborato con Padoa Schioppa e con Renzi. E poi direttore dell’Agenzia del demanio, e poi di nuovo a Via XX Settembre per un lustro. Fino a che non cercò un buen retiro momentaneo, nel 2021, nell’amata Trigoria, come responsabile degli affari istituzionali dell’As Roma, di cui è tifosissimo, prima che Daniele Franco lo richiamasse al Mef. Dove ora dirige l’ufficio studi sull’attuazione del Pnrr: incarico prestigioso ma non troppo, e che  verrà coinvolto nella ridefinizione della governance del Recovery a cui sta lavorando  Raffaele Fitto. L’uomo giusto, dunque, per sostituire Rivera? Forse sì, se è vero che a parlarne tanto bene, in questi giorni, è proprio Rivera. 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.