Partita con Panetta, arrivata a Leo. Ecco perché Meloni è costretta a riaprire il casting per il Mef

Valerio Valentini

Speravano nell'ex dirigente di Banca d'Italia, uomo di Draghi alla Bce. Ora in FdI dicono: "Ma anche Maurizio, ex assessore di Alemanno, non sarebbe male". La leader della destra chiede consigli a Palazzo Chigi, sonda Giorgetti e medita lo sgarbo a Salvini. L'ipotesi di Signorini

A qualcuno pare quasi una prudenza preventiva, uno zelo non richiesto che sa un po’ di imbarazzo. “Ma guardate che uno come Maurizio Leo avrebbe tutti i titoli per fare il ministro dell’Economia”. Giovanbattista Fazzolari lo va ripetendo da giorni, ormai. Lo dice ai giornalisti curiosi, lo spiega a manager ansiosi di sapere. E non che si abbia qualcosa contro il buon Leo, giurista stimato, uomo di una certa esperienza istituzionale e accademica. Il punto è che nel rattrappirsi delle aspettative, in quel negare risolutamente grandi speranze, grandi velleità, a lungo coltivate, c’è un po’ il senso di un mezzo fallimento. E non sorprende che ci sia chi, nella Lega, non perda l’occasione di infierire. “Perché se partiamo con Fabio Panetta, e arriviamo a Leo, insomma, non è un gran partire”. E forse lo sa anche Giorgia Meloni. La quale infatti va cercando alternative, un po’ col fiato corto.

Perché il lento digradare delle nomination ha frustrato anche lei. Che sull’ex direttore generale di Banca d’Italia aveva scommesso davvero. “Panetta è uno dei pochi dei nostri bravi, lì a Bruxelles, che non è di sinistra”, le avevano detto. E lei ci aveva puntato, s’era sforzata di sperarci almeno fino a metà della scorsa settimana, quando un ennesimo tentativo – svolto senza lo sperato intervento di moral suasion da parte del Quirinale sul membro del board della Bce – aveva liquidato le illusioni residue.

Nel frattempo, però, fiutando l’aria, Meloni aveva dato mandato ai suoi di sondare altre “figure tecniche autorevoli”, per il Mef. E la ricerca è parsa animata da un furore un poco scombiccherato, come se arruolare Domenico Siniscalco fosse lo stesso che affidarsi a Dario Scannapieco. E nel frattempo, mano a mano che il casting si impantanava,  si scendeva di girone in girone verso ipotesi sempre più fumose, sempre più improbabili.

E dunque, ecco la tentazione finale del bene rifugio, dell’uomo fidato. Che magari, d’accordo, a livello amministrativo vanta, come massima esperienza, i due anni da assessore al Bilancio nella non esattamente gloriosa giunta capitolina di Gianni Alemanno. E però.  “E però Leo avrà anche uno standing internazionale inferiore, ma almeno è un politico,  uno che darebbe un input chiaro alla macchina di Via XX Settembre”, spiega adesso Fazzolari. Aggiungendo, poi, che l’efficienza della struttura verrebbe comunque garantita dalla continuità ai vertici dei dipartimenti principali: Alessandro Rivera al Tesoro, Biagio Mazzotta alla Ragioneria generale, ovviamente Carmine Di Nuzzo al Pnrr.

E tanta è l’ansia da prestazione sul Mef, da parte di Meloni, così viva la consapevolezza di non poter sbagliare, che i consiglieri della capa della destra hanno chiesto consulto perfino ai collaboratori di Mario Draghi. E nel confronto tra gli sherpa, il ragionamento che è maturato è stato grosso modo questo: “Posto che un tecnico di prestigio come Panetta non c’è, piuttosto che scegliere un funzionario di secondo livello, meglio puntare su un politico  ritenuto affidabile”. I nomi, a quel punto, sono arrivati di conseguenza. Uno è quello di Guido Crosetto, che riemerge ogni volta che si cerchi trasversalità di rapporti tra i vertici di FdI, a dispetto delle sue reiterate – e, pare, sincere – dichiarazioni di non voler entrare al governo. L’altro, e pure questo è un evergreen, è quello di Giancarlo Giorgetti. Che con Meloni parla al telefono con assiduità (“Sento più volte lei che mia moglie”, sorride), e non da oggi, ma fin da quando la futura premier cercava un riscontro di ragionevolezza tra i dirigenti del Carroccio per spiegare che no, Salvini al Viminale non era proprio cosa.

Ma ovviamente i due hanno parlato anche dei destini di Giorgetti stesso: e l’ipotesi del Mef, all’attuale titolare del Mise, è stata prospettata più volte. Lui tentenna, come suo solito. Riflette, con tono agrodolce, che si trova nella condizione di chi viene candidato a molte cose, ma quasi sempre da gente estranea al suo partito. Perché in fondo le dinamiche di Via Bellerio c’entrano non poco, in questa faccenda. Consegnare il Mef a Giorgetti significherebbe anzitutto, per Salvini, dover rinunciare anzitempo a quell’opera di logoramento dall’interno a cui da tempo s’è votato. Ma se è Giorgetti, l’uomo che firma la Finanziaria, come potrebbe Salvini lamentare la mancanza di coraggio sulle pensioni o sulla flat tax?

E poi c’è una questione di gerarchie interne. Se il Mef va a Giorgetti, vuol dire che sarà quello il ministero di maggior peso che la Lega può rivendicare. Il che da un lato ridurrebbe il peso negoziale del partito nella contrattazione per altri ministeri, e poi finirebbe col mettere in ombra lo stesso Salvini. Che già all’epoca di Draghi ha dovuto subire l’onta , e che a Meloni ha già spiegato: “Non succederà ancora”. E dunque anche questa, di ipotesi, pare poco praticabile, per la leader di FdI. Che però, prima di accettare di dovere esaltare le doti di Leo, cosa che pure farebbe, si spende per cercare altre soluzioni. L’ultima, è quella di Luigi Federico Signorini, direttore generale di Banca d’Italia. Chissà che questa, stavolta, non sia solo una suggestione.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.