Foto di Giordan Ambrico, via LaPresse 

la storia

Il ritorno al Mef di Siniscalco, che se ne andò sbattendo la porta

Stefano Cingolani

Tecnico competente e affabile, ma non malleabile. Nel 2004 si dimise in contrasto con Alleanza nazionale e Lega, questa volta potrebbe essere la sua volta buona?

Le prime dimissioni poi rientrate risalgono alla notte del 13 ottobre 2004 a tre mesi dal suo insediamento a palazzo Sella come responsabile dell’economia, quelle definitive arriveranno quasi un anno dopo il 22 settembre 2005. “Non ci si ferma perché un ministro, seppure in un momento non proprio propizio, abbandona la nave”, commentò Ignazio Benito Maria La Russa da Paternò. Il longevo dirigente della destra italiana (Msi, An e ora Fratelli d’Italia) non può non ricordarselo, ora che Domenico Siniscalco è entrato nel risiko del nuovo governo. La domanda infatti non è se l’economista torinese abbia il quid per guidare la barca dell’economia in mezzo alla tempesta, ma quanto durerà. Allora venne schiacciato soprattutto da An, il partito in cui militava La Russa, guidato da Gianfranco Fini il quale voleva una “cabina di regia” che orientasse la politica di bilancio contro la gestione cauta e conservativa di Siniscalco. Silvio Berlusconi non lo sostenne. Oggi al ruolo di Fini dentro la maggioranza si candida Matteo Salvini, ebbene: chi tra i due sosterrebbe Giorgia Meloni? Perché tutto cambia, ma i rituali del potere restano gli stessi.

 

L’economista torinese, in uscita da Morgan Stanley per aver raggiunto il limite d’età (65 nelle banche d’affari e lui ne ha già 68), secondo alcuni avrebbe dato la propria disponibilità, secondo altri viene tirato per la giacchetta, ma non c’è dubbio che ha tutte le carte in regola, un curriculum ricco, esperienze di alto livello, caratura internazionale come pure Fabio Panetta il quale, per ora, resiste al corteggiamento di Giorgia Meloni e vorrebbe restare alla Bce, almeno finché tra un anno Ignazio Visco non avrà lasciato la sua poltrona al vertice della Banca d’Italia. In più Siniscalco può vantare la conoscenza della macchina visto che è stato per quattro anni direttore generale del Tesoro, nominato da Giulio Tremonti nel 2001 per rimpiazzare l’uscita di Mario Draghi per evidente incompatibilità. Ha tutto, compresa la simpatia e la vasta rete di amicizie. Secondo una battuta che da anni fa il giro dell’ambiente, conosce 25 milioni di italiani, agli altri 25 milioni dà del tu. E chiunque lo abbia incrociato almeno una volta vuole chiamarlo Mimmo. 

 

La sua nomina a ministro non fu affatto una transizione morbida. Giulio Tremonti si era dimesso anche lui in contrasto con Fini e con la Banca d’Italia guidata da Antonio Fazio. L’abbandono clamoroso aveva messo in fibrillazione Berlusconi, il quale scelse quella che sembrava la soluzione più logica e “tecnica”. Tremonti e Siniscalco erano amici da almeno vent’anni, avevano fatto parte entrambi dei “Reviglio boys” il trust di cervelli che consigliava l’allora ministro delle Finanze nel governo Cossiga (1979-81). C’erano Franco Bernabè e Alberto Meomartini che lo seguiranno all’Eni, Tremonti che poi consiglierà Rino Formica, Mario Baldassarri che passerà all’insegnamento come lo stesso Siniscalco. 

 

Nato a Torino nel 1954, liceo Alfieri, laurea in giurispudenza, dottorato in economia a Cambridge (Inghilterra), professore ordinario a Torino, incarichi prestigiosi, l’ultimo è la presidenza della Fondazione Courmayeur che non è un club vacanziero. Insomma, è torinese da cima ha fondo, ha sposato in seconde nozze Cristina Moriondo, nome di rilievo della nobiltà piemontese con la quale ha due figli, è in buoni rapporti con casa Agnelli anche se non ne ha mai fatto parte veramente. Vicino ai socialisti in gioventù, ha poi mantenuto un profilo da indipendente sia pur  orientato verso il centrodestra (s’era fatto il suo nome anche nel 2018 per il governo giallo-verde). 

 

Era stato Tremonti a portarlo a Roma e lui lo ha soppiantato come ministro dell’Economia, una poltrona sulla quale ha resistito per soli undici mesi, poi Silvio Berlusconi richiamò Tremonti che aveva allontanato per placare i bollori di Fini. In realtà non si erano placati né l’An di Fini, né l’Udc di Pier Ferdinando Casini né la Lega. Intanto era scoppiato il conflitto con il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, finito sotto la mannaia della magistratura in seguito alla scalata bancaria alla Bnl (era l’estate dei furbetti, come venne chiamata).

 

Finché Siniscalco non pose l’alternativa: o io o lui, anzi loro. “Mi dimetto per l’assoluto immobilismo del governo. Il problema non è Fazio, ma chi è incapace di risolvere il problema. Per questo non sono amareggiato: sono scandalizzato”, queste le parole del ministro. Nelle stesse ore partiva un duro attacco alla Finanziaria da parte di Ivo Tarolli, responsabile economico dell’Udc, e dalla Lega con Roberto Calderoli. Entrambi bocciavano la manovra definita “né strategica né elettorale” (si sarebbe votato l’anno successivo), lanciando un allarme: le pensioni non si toccano.

 

Una costante. Calderoli se la prese direttamente con Siniscalco e con i tecnici (anche qui dopo vent’anni lo stesso populismo leghista): “Quando si ha un ministro tecnico all’Economia, la politica dovrebbe partecipare a determinare la Finanziaria. C’è uno spazio per i ministri tecnici ma ci deve essere spazio anche per i politici, perché i politici dovranno essere sottoposti al voto, i tecnici no. E quindi non possiamo fare gli interessi dei ragionieri, ma dei cittadini”, fu il proclama calderoliano. Così in pochi mesi Berlusconi perse il ministro dell’Economia, dopo aver cambiato tre ministri degli Esteri e due ministri dell’Interno.

 

Chi lo conosce ricorda che Siniscalco non ne poteva più. È vero che maneggiava bene gli arcani meccanismi del Tesoro avendolo diretto per quasi quattro anni, ma una cosa è lavorare dietro le quinte, fare il consigliere, gestire una struttura solida e complessa con il suo fare coinvolgente e i modi informali (entrava nelle stanze dei dirigenti per aiutarli, ma anche controllarli), tutt’altro esporre il petto al fuoco incrociato. Guido Carli teneva nel suo studio un quadro di San Sebastiano e lo mostrava agli ospiti con un civettuolo scusarsi per tutto quello che avrebbe voluto fare se non fosse stato infilzato da tutte le parti.

 

Rispetto a Draghi (scelto da Carli) “uomo carismatico, molto abile nell’impostazione virile dei rapporti, imperturbabile, inafferrabile, aria da pokerista, Siniscalco è un’altra cosa”, scrisse allora Marco Ferrante sul Foglio. “L’aura che circonda Draghi racconta di un uomo che guarda le cose come un comandante militare in cima a una collina, e dà sempre l’impressione che siano gli interlocutori a girargli intorno; Siniscalco, invece, anche a causa dei suoi modi amichevoli dà la sensazione di cercare le cose e marcare gli uomini”. Ha una naturale propensione per la vita mondana e una grande capacità di cogliere l’essenziale, ma dopo un po’ s’annoia. 

 

La storia non si ripete, eppure al gran ballo nei saloni di Chigi (sta per il Palazzo) troviamo ancora gli stessi, a cominciare da La Russa e Calderoli. Dopo tanto arrembaggio alla Casta sembra che nulla sia cambiato. I fulmini di un tempo si sono scaricati, gli odi si sono spenti, le accuse dimenticate? Chissà. Ma soprattutto, Siniscalco questa volta non si annoierà?