Il termovalorizzatore di A2A di Brescia (foto Ansa)  

fatti vs opinioni

Sfide per il governo del futuro: combattere le nuove fake news sugli inceneritori

Antonio Massarutto

Gli impianti di questo tipo vanno valutati nel confronto con altre soluzioni per gestire i rifiuti, non con gli strumenti per produrre energia: se anche il 100 per cento della produzione venisse da sole e vento, non per questo i rifiuti sparirebbero

C’è qualcosa di peggio delle fake news, e sono le notizie vere a metà, concatenate però in modo capzioso, per suggerire inesistenti rapporti causa-effetto. “Inceneritori col trucco. Guasti, tossici, poco utili. Non riforniti correttamente di rifiuti, e quindi nocivi. A Milano e nel Gallaratese, picco di mortalità e di ricoveri. Per gli ‘esperti’, è un suicidio produrre energia in questo modo”: così titolava il Fatto quotidiano il 31 luglio scorso. Peccato che, nell’articolo, di emissioni tossiche, picchi di mortalità e ricoveri non ci sia traccia. Nemmeno di “guasti”, se è per quello. Cosa avrà fumato il titolista? “L’inceneritore pulito non esiste: la polvere resta sotto il tappeto. Mancano le analisi sul reimpiego dei residui: finiscono in strade o nelle cave o diventano rifiuti speciali non conteggiati in discarica”.

 

Questo ieri. Notare la finezza de “in strade”, che lascia intendere “abbandonati in mezzo alla via”, quando invece significa solo che le ceneri, materiali inerti, entrano nei conglomerati per le massicciate. O il “non conteggiati”, che evoca chissà quali furbate, mentre sono solo conteggiati diversamente. Gli impianti italiani, si dice, non bruciano rifiuti urbani indifferenziati, ma in buona parte rifiuti speciali: sia i flussi in uscita dai Tmb, sia gli scarti delle raccolte differenziate. Ma questo non vuol dire che gli impianti “non sono alimentati correttamente”, semmai che, con buona pace dei guru del “zero waste”, non basta la differenziata per ridurre i rifiuti urbani, anche quando viene spinta al massimo. Il Fatto scopre ora ciò che ripetiamo da anni, ossia che lo “pseudoriciclo” è servito solo a far uscire i rifiuti dal regime della pianificazione in barba al principio di autosufficienza. Ma ne capovolge il senso.

 

La cosa illegale, infatti, non è valorizzare questi flussi per ricavarne energia, ma spedirli in giro etichettandoli come materie seconde. Questo trucco però faceva comodo a troppi: agli amministratori regionali che potevano fingere di rispettare il principio di autosufficienza, ai talebani delle differenziate, a quanti continuano ancora a negare l’evidenza che in Italia sia necessario aumentare la capacità di incenerimento di almeno un terzo rispetto all’attuale 20 per cento. Di perla in perla: i termovalorizzatori producono sì energia, ma poca e “altamente inquinante”, con il triplo della CO2 rispetto al mix energetico attualmente utilizzato. E quindi? noi mica produciamo rifiuti perché ci piace usarli come combustibile. Li produciamo e basta. L’incenerimento va valutato confrontandolo con altre soluzioni per gestire i rifiuti, non con quelle per produrre energia. Se anche il 100 per cento dell’energia venisse da sole e vento, non per questo i rifiuti sparirebbero.

 

Da ultime, le ceneri. “Se si trattasse negli inceneritori tutto il rifiuto residuo dopo aver riciclato il 65 per cento, ciò che resta come cenere è l’8”, dice un esponente di Zero Waste Europe, intervistato dal Fattaccio. Ebbene? Saremmo comunque sotto l’obiettivo del 10 per cento, (non a caso l’Ue ha scelto 10, e non zero). Le ceneri poi valgono in peso circa 1/3 della massa originaria, ma in volume solo 1/10: lo spazio (eventualmente) occupato in discarica si misura in volume e non in chili. Ma anche questo calcolo è errato, visto che in discarica ci va solo una piccola parte: il grosso già ora viene utilizzato come materiale inerte con applicazioni nell’edilizia. Dov’è il problema? Non è anche questo un recupero di materia? Presto detto: “L’assenza di verifiche potrebbe nascondere un movimento mascherato di rifiuti oltre confine”. Un’affermazione così generica vale per qualsiasi movimentazione di rifiuti, anche quelli destinati al riciclo, che si perdono facilmente nella giungla di passaggi tra un operatore e l’altro – almeno gli impianti di incenerimento sono molto più controllati.

 

Ma infine, quale sarebbe l’alternativa? Ciò che non si ricicla, o viene incenerito, o va in discarica. Il riciclo è desiderabile perché implica molte meno emissioni rispetto all’uso di materia vergine: a patto che lo si possa separare in modo conveniente, con un grado di purezza sufficiente, altrimenti il lavoro necessario supera il beneficio. Ciò vale soprattutto per la plastica, per non dire dei materiali compositi di cui è stracolma la nostra pattumiera. Ogni forma di recupero va incontro a rendimenti decrescenti. L’Ue fissa per questo l’obiettivo di riciclo effettivo al 65 per cento – già di per sé molto sfidante, proprio perché va calcolato senza i trucchi di cui si è detto sopra. Andare oltre non conviene, né dal punto di vista economico, né da quello del risparmio energetico. Come gestire ciò che manca per arrivare a 100, è il problema del nostro paese. Che non si risolve cavando dal cilindro tecnologie avventurose e mai testate alla scala industriale. A suo modo questa è una sfida per il prossimo governo: se riuscirà a costruire una discussione pubblica sui rifiuti scevra da ideologismi e fake news, sarà un grande passo avanti per il paese.

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