Roma Capoccia

Se anche il New York Times scopre la parola “monnezzaro” c'è un problema

Andrea Venanzoni

Poche settimane fa, il quotidiano americano ha dedicato un lungo e doloroso reportage a firma di Jason Horowitz sulla situazione in cui versa Roma

Tomas Milian purtroppo questa volta c’entra poco, e dove non sono riusciti Bruno Corbucci e Mario Amendola, ha trionfato il sindaco Roberto Gualtieri che è riuscito nel dubbio primato di far finire sulle pagine del prestigioso New York Times, per la prima volta nella sua storia editoriale, la parola “monnezzaro”. Poche settimane fa, il quotidiano americano ha dedicato un lungo e doloroso reportage a firma di Jason Horowitz sulla situazione in cui versa la Capitale d’Italia. 

 

Una sorta di revival postmoderno e trash, e mai termine fu più azzeccato visto il tema, del declino dell’impero romano letto non più attraverso le viscere degli uccelli ma ricorrendo a lunghe gallerie di foto a base di ratti, cassonetti ricolmi e traboccanti di rifiuti, tappeti laocoontici di sacchi della spazzatura che si dipanano a terra simili a malefiche e plastiche mangrovie.

 

Horowitz stigmatizza la sindrome Nimby, spesso vellicata nei suoi appetiti profondi dalla politichetta capitolina che per amor di voti è andata promettendo che di ogni orto avrebbe fatto Stalingrado luddista contro infrastrutture altrimenti essenziali: e se al posto della bandiera rossa dell’Urss, sulle macerie fumiganti dell’Urbe si vede stendere battuto dal vento il tessuto plastico di un sacchetto nero, non c’è davvero simbolo migliore nella sua carica mitografica e lercia.

 

L’ignavia. La quieta, serafica estasi bovina del romano medio che pur annegato da liquami puzzolenti e dalla muraglia cinese di oggetti gettati alla rinfusa sotto casa se ne rimane a braccia conserte a bearsi di un glorioso, e assai spesso immaginifico, passato.

 

Nell’articolo del New York Times, questa passività ormai strutturale, quasi ontologica, connaturata al carattere del romano medio, indolente, pigro e rassegnato al volgere delle maree di monnezza, è un convitato di pietra a volte evocato espressamente a volte sottinteso tra le righe.

 

E dell’ignavia ha parlato anche l’attore Giorgio Tirabassi che nel luglio scorso in una intervista ha ricordato la desolazione oleosa in cui versa la Capitale. 
L’assuefazione, dice Tirabassi, ormai porta noi romani a ritenere che una Roma diversa da quella che vediamo e viviamo oggi, sporca, preda di incuria e degrado, invasa da ratti, cinghiali e gabbiani prepotenti, non possa esistere. Quanto la città versi in condizioni penose riesce a comprenderlo soltanto chi viene da fuori.

 

Poi certo, c’è anche la sfilata dell’impegno civico un tanto al chilo e della indignazione a corrente alternata di quei Vip che scoperto un problema annoso si indignano, scattano foto e le postano online, nei vari canali social, pensando che la loro denuncia possa sortire qualche effetto.

 

Quell’effetto che petizioni, manifestazioni, cortei di comitati cittadini non hanno mai sortito per indifferenza patente della classe politica che con una mano promette interventi e con l’altra assicura che quegli interventi non si faranno, per non turbare troppo chi si troverebbe sotto casa, in metafora, un tanto aborrito termovalorizzatore.

 

Una città triste e olezzante ostaggio di una politica di Schrödinger.

 

E così, la brand reputation della Città, lo scriviamo in inglese in ossequio alle coordinate ideologiche di chi parla di transizione green che gira e rigira significa che dovrai dimenticarti la macchina nuova nel garage nonostante tu debba ancora pagarne ottocento rate mensili, va a farsi friggere. 

 

Sotto il dolente peso di queste foto di monnezza sbocconcellata da gabbiani e cinghiali, monumenti cinti d’assedio dai sacchetti neri, blu, gialli, in una policromia del degrado metropolitano sempre più insostenibile.

 

E nell’attesa messianica di quel sogno vagheggiato da Horowitz a proposito delle idee gualtieriane per risolvere la annosa, e maleodorante, questione, non ci resta che smarrire la vista nel cumulo alto come torre di Babele di rifiuti organici, pezzi di ferraglia, elettrodomestici gettati sul ciglio delle strade, divani e materassi, e in quel lezzo puntuto che si leva al cielo come un disperato grido di dolore.

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