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Meloni e Letta, gli avversari complici

Salvatore Merlo

Il duello anti televisivo aiuta a capire perché il segretario del Pd e la leader di Fratelli d'Italia alla fine non riescono a litigare

Il nipote della Dc e la nipote del Msi, un duello che equivale ovviamente al mutuo riconoscimento, costruito per escludere il resto del mondo. Ragione per la quale, mentre Enrico Letta e Giorgia Meloni, ospiti del Corriere della Sera, si sottopongono per quasi novanta minuti in video alle domande del direttore Luciano Fontana, ecco che su Twitter s’inserisce il corsaro Carlo Calenda. E proprio come quegli hacker che nei film di fantascienza dirottano le dirette televisive, il leader di Azione decostruisce e ricostruisce il format dello scontro a due. Aggiungendo però se stesso, e le risposte che avrebbe dato se lo avessero invitato. E allora anche Calenda, come Meloni e come Letta, anzi assieme a Meloni e  a Letta, si sottopone a questa formula civile, coi tempi scanditi e il divieto d’interruzione. Il faccia a faccia al quale l’Italia politica è disabituata, e che alla fine lascia piacevolmente stupiti. Perché il dibattito regolato, che è un anti-spettacolo o meglio un anti talk-show, non è fatto per  addormentare lo scontro ma per imporre la propria ragione su quella dell’altro. 


E chissà allora che non sia vero che il miglior duello possibile  sia proprio quello anti televisivo, come questo condotto dal direttore del Corriere, ottenuto cioè da un rovesciamento completo delle premesse politiche, sceniche, simboliche e persino cognitive del talk-show per come lo conosciamo in Italia sin dai tempi di Maurizio Costanzo. Niente pubblico e niente applausi, i tempi delle risposte non soltanto regolati (due minuti e mezzo a risposta, un minuto e mezzo di replica), ma addirittura imposti in via pregiudiziale. E poi nessun piano largo, nessuna inquadratura di Letta che ascolta Meloni in silenzio  e però magari intanto scuote la testa, fa smorfie, alza gli occhi al cielo o addirittura sbadiglia. Equidistanza.

 

L’efficacia politica oggi sul sito del Corriere è stata insomma tutta legata alla modestia scenica dell’incontro-scontro,  alla precisione delle domande e addirittura alla  mancanza di calore, malgrado qualche colpo basso  e un’implicita affettuosità di fondo che affratellava, sotto sotto, Letta e Meloni. E d’altra parte i rapporti personali tra i due sono buoni, com’è assai noto e come spesso capita in politica anche tra avversari, con la differenza che di solito i leader si urlano addosso e s’insultano  davanti alle telecamere. Recitando. Mentre Letta e Meloni oggi hanno voluto al contrario offrire l’idea di una civiltà delle maniere, e di una contro-recita: nel senso che ciascuno di loro ha deciso di essere per l’altro quello che è di solito, anche quando i riflettori della televisione sono spenti. Come quando lei, per rispondere al segretario del Pd che l’accusava di attentare ai diritti civili e di voler “normare l’amore” tra le persone, rispondeva così, ironica e familiare, prendendolo seccamente per la collottola del nome: “Lo stato non norma l’amore, Enrico.  Io sono cresciuta in una famiglia con un genitore solo, come sai bene... secondo te voglio normare l’amore?”.  

 

Così per quasi due ore i duellanti  (tralasciamo per un attimo l’imbucato Calenda su Twitter) si sono cimentati generosamente in questo antispettacolo, lasciando intuire che nei loro rapporti c’è forse qualcosa di nemico ma anche di complice, negli occhi, nei gesti, che li rivelano avversari eppure alleati in un medesimo codice, quello della grammatica politica che forse deriva  dalle due ormai antiche tradizioni culturali che incarnano, la Dc e il Msi, vecchia pianta repubblicana. “Questo è un dibattito tra due persone che si rispettano”, ha spiegato  Letta a un certo punto, dopo essersi spinto a dire che la proposta sul presidenzialismo avanzata da Meloni  non gli piace, “ma non sono certo contrario al dibattito sulle riforme costituzionali”. Mica poco un'apertura, chissà, a una bicamerale costituente. Un duello cavalleresco dunque, una giostra dove i colpi in realtà  non sono stati mai mortali.  

 

Il segretario del Pd era più all’attacco e incalzava Meloni sugli alleati putiniani, su Salvini e su Berlusconi, gli inaffidabili compagni di strada del centrodestra, insisteva sulle promesse bislacche e irrealizzabili della Lega in materia fiscale, sulle ambiguità europee di Fratelli d’Italia, sulle amicizie con Orbàn e con l’estrema destra polacca. Insomma Letta faceva l’elenco di quelle debolezze che in gran parte, anche quando non le ammette, la leader di Fratelli d’Italia conosce bene. Al punto che Meloni le ha sostanzialmente negate tutte, una a una, rifiutandosi – in questo gioco dei ruoli – di accettare il campo di sfida che le proponeva Letta, cioè quello delle due ipotesi divergenti di futuro rappresentate dal Pd e da Fratelli d’Italia: il giorno e la notte, il caldo e il freddo, lo yin e lo yang. Meloni era più intenzionata a tranquillizzare gli elettori forse ancora incerti, su tutta la linea, dall’Europa ai diritti civili, dall’ambiente all’immigrazione (“ci vuole una missione europea nel nord Africa”, diceva lei incorrendo nell’ironia di Letta: “Noto con piacere che la parola blocco navale è scomparsa").

 

E anche i colpi di punta e di stiletto, che pure Meloni non ha risparmiato al fianco di Letta,  oggi in realtà avevano lo scopo di respingere le accuse di estremismo che la infastidiscono, e che lei reputa ingiustificate: “A Taranto Letta applaudiva Michele Emiliano mentre diceva che ci avrebbe fatto sputare sangue, se l’avessi detta io una cosa del genere...”.  Alla fine resta la piacevole sensazione di un dibattito civile, anche se ha fatto arrabbiare Calenda e gli altri esclusi, ed certamente  dispiaciuto a Bruno Vespa cui l’Agcom l’aveva vietato per ragioni di par condicio. “Una bizzarria tutta italiana”, dice lui. Ma col sorriso.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.