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Il ribaltone dell'agenda Draghi

Claudio Cerasa

Doveva essere l’asso nella manica del fronte populista e invece l’ha spaccato (e occhio al Pd futuro). E la destra ora finge di essere draghiana. Vedi le telefonate fra premier e Meloni. Storia di un pazzo cortocircuito

Doveva essere il collante della coalizione anti sovranista. Doveva essere l’arma segreta del fronte anti populista. Doveva essere l’equivalente di un asso nella manica da utilizzare per sbaragliare gli avversari nazionalisti. E invece più passa il tempo, più la campagna elettorale si fa strada, più le posizioni dei partiti prendono forma e più risulta evidente che la famosa o famigerata agenda Draghi sta producendo, nelle mani dei suoi utilizzatori finali, l’effetto opposto rispetto a quello che avevano immaginato.

 

Doveva unire, l’agenda Draghi, doveva contribuire a mettere in luce tutte le debolezze degli avversari, doveva aiutare a mostrare tutte le loro fragilità, e invece, almeno finora, l’agenda Draghi ha diviso coloro che la volevano utilizzare come strumento chiave della propria campagna elettorale e ha spinto coloro che invece l’agenda Draghi l’hanno sabotata a fare uno sforzo in più per essere percepiti in modo diverso da come provano a raffigurarli i loro avversari. L’agenda Draghi doveva unire il centrosinistra, doveva essere il mastice della proposta anti populista, e invece, almeno finora, ha avuto l’effetto di dividere più gli anti populisti che i populisti. E’ sull’agenda Draghi che è saltata la coalizione tra Enrico Letta e Carlo Calenda, con il secondo che ha accusato il primo di essere un sostenitore dell’agenda Draghi solo a parole, essendosi poi alleato con la Fratoianni Bonelli Associati. E’ sull’agenda Draghi che è saltata l’alleanza del Pd con il M5s, il quale Pd ha scelto di andare coraggiosamente da solo alle elezioni alleandosi però con un partito, quello di Fratoianni, che la fiducia al governo Draghi non l’ha votata per 55 volte, dimenticando il fatto che il M5s, prima di non votare la fiducia nell’ultima occasione, a luglio, il suo sì a Draghi lo aveva dato la bellezza di 54 volte. E’ sull’agenda Draghi, poi, che i rivali interni di Enrico Letta, nel Pd, preparano già la propria futura campagna congressuale, pregustando alcuni una battaglia anti Letta sulla base di un’eccessiva adesione all’agenda Draghi (vedi, a causa di Draghi abbiamo rotto l’alleanza con il M5s) e pregustando altri una battaglia anti Letta sulla base di una troppo timida adesione alla stessa agenda (vedi, a causa dell’alleanza con gli anti draghiani abbiamo perso i riformisti). E’ sull’agenda Draghi, poi, che per molto tempo hanno bisticciato i due leader della coalizione più draghiana che c’è, ovvero Carlo Calenda e Matteo Renzi, con il primo che non ha mancato di ricordare a Renzi che un vero draghiano non avrebbe mai votato la fiducia a un governo Conte e con il secondo che non ha mancato di ricordare a Calenda che senza Renzi non ci sarebbe mai stato un governo Draghi.

 

E così, mentre il centrosinistra si divide in modo fratricida sbandierando un’agenda immaginaria, il centrodestra, consapevole di cosa significhi essere considerato come il sicario del governo Draghi, dal primo giorno della campagna elettorale non ha fatto altro che mostrare il suo presunto amore per il presidente del Consiglio e per la sua azione di governo. E così, dicono in coro Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, i veri autori del draghicidio non sono nel centrodestra ma sono nel Movimento 5 stelle, che ancora una volta ha dimostrato di essere un partito irresponsabile e per questo non votabile. E così capita che Matteo Salvini scelga di dare spazio al Meeting di Rimini al più draghiano dei leghisti, ovvero Giancarlo Giorgetti, dopo aver scelto di far firmare sempre a lui, a Giorgetti, l’accordo per la ripartizione dei candidati del centrodestra nelle liste elettorali. E così capita che Berlusconi non perda un’occasione per dire che la stella di Mario Draghi, in fondo, ha iniziato a brillare grazie a lui, grazie alla scelta fatta anni fa di promuoverlo alla guida di Bankitalia e di spingerlo poi alla guida della Bce, perché Draghi, dice il Cav., in fondo è figghio a me. E lo stesso, in fondo, sta cercando di fare Giorgia Meloni, dal giorno uno della campagna elettorale, facendo sapere che (a) il giorno in cui Draghi è caduto al Senato lei aveva appuntamento a Palazzo Chigi proprio con il presidente del Consiglio; che (b) le telefonate con il presidente del Consiglio sono costanti e cordiali. Che (c) il centrodestra qualora dovesse vincere le elezioni farà di tutto per non disperdere l’autorevolezza del presidente del Consiglio; che (d) il centrodestra qualora dovesse vincere le elezioni seguirà alla lettera l’agenda Draghi in politica estera; che (e) il centrodestra qualora dovesse vincere le elezioni seguirà alla lettera l’agenda Draghi sui dossier energetici al punto da essere tutti disposti, i leader del centrodestra, a schierare come ministro delle Transizione ecologica lo stesso ministro del governo Draghi; che (f) il centrodestra ha così a cuore il Pnrr elaborato dal governo Draghi da non essere del tutto ostile all’idea di chiedere allo stesso ministro dell’Economia che c’è oggi, Daniele Franco, o a uno dei banchieri più stimati da Draghi, Fabio Panetta, di guidare il Mef in caso di vittoria del centrodestra. E lo dice, il centrodestra, pur sapendo di non dire la verità, pur sapendo di essere tra i responsabili della caduta del governo Draghi, pur sapendo di avere tra le proprie file politici che hanno fatto di tutto per sabotare l’agenda Draghi in politica estera, pur sapendo di avere alla guida della coalizione un partito che Draghi lo ha combattuto dall’opposizione per un anno e mezzo, pur sapendo di non essere in grado neppure di difendere un rigassificatore in una città come Piombino governata dal centrodestra.

 

Eppure, a un mese dalle elezioni, a un mese dal voto che deciderà chi ci sarà dopo Draghi, il risultato è questo: l’agenda Draghi doveva unire, doveva mettere a nudo le debolezze degli amici del giaguaro populista, ma ha finito incredibilmente per dividere più i suoi sostenitori che i suoi detrattori, mettendo in luce una inevitabile verità della campagna elettorale: l’esperienza Draghi non va dispersa, va anzi custodita e rivendicata, ma dimenticare la sua agenda, pensando ad altro, pensando al futuro, è forse il modo migliore, per tutti, per non essere più ostaggi dei fantasmi del passato.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.