Mario Draghi durante il discorso di mercoledì al Meeting di Comunione e Liberazione (LaPresse)

Dimenticare Draghi, perché è indimenticabile e irripetibile

Giuliano Ferrara

Chi verrà dopo di lui dovrà dimostrare di saper fare meglio, senza alibi. C'è da ricostruire un profilo decente della politica italiana, che il presidente del Consiglio ha stravolto con la sua integrità, autorevolezza e determinazione

Dimenticare Draghi, che ha tenuto ieri un discorso indimenticabile. Non è solo questione di un italiano perfetto, di un sorriso invitante ma non stupidamente emozionante, di un insieme di risultati della stagione breve e incredibilmente efficace di governo, e di una proiezione non retorica verso un futuro di difficoltà, di speranze, di slancio nazionale in Europa e in occidente. Non è solo questione di imparzialità, di disinteresse personale, di autentico amore per il proprio paese nel mondo turbolento di pandemia, guerra, minacce allo sviluppo. La missione compiuta di questo incredibile Grand Commis de l’État, il più politico di tutti i politici, il meno demagogico e il più laconico tra chi ci ha mai governato, sa di irripetibilità.        

 

Abbiamo mancato l’occasione di averlo alla guida dello stato per sette anni, e questo è imperdonabile e miserabile, anche alla luce della sua uscita di scena da primattore consumato. Un gesto di autolesionismo senza precedenti nella nostra storia. Di cultura liberale e di istinto keynesiano, cattolico e laico per metodo, conoscitore per esperienza diretta della politica italiana e della grande politica europea e mondiale, tra i primi Draghi ha capito il passaggio di fase della pandemia, e poi della guerra, e ha tenuto ferma la barra del timone con intelligenza e generosità fino al momento in cui lo spirito di divisione ha reso necessario il ritorno a una mediocre normalità. Non lascia alcuna agenda ma risultati. E un segno di apertura e bellezza della politica destinato all’archivio appena aperte le urne elettorali. Che consegna a chi gli succederà un compito doveroso, perché la base della democrazia è nelle elezioni, ma quasi impossibile.      

 

Dimenticare Draghi significa fare tesoro dei suoi interventi e delle sue politiche per il debito buono, della sua integrità e autorevolezza nel perseguire gli scopi di una missione di unità nazionale, della sua determinazione a far funzionare il governo nell’interesse generale, anche dell’opposizione, senza sfuggire ai controlli e senza subirne l’effetto paralizzante. Ora avremo un Parlamento più forte perché non pletorico, con deputati e senatori scelti essenzialmente dai partiti in mancanza di una legge elettorale seria, seriamente proporzionale o seriamente maggioritaria, e un governo e una maggioranza scelti da quel popolo che nel 2018 ci diede una legislatura pazza e un po’ ubriaca, della quale si è fatto il meglio con la solita sfrontata flessibilità del trasformismo all’italiana; per finire in gloria con un esecutivo di livello internazionale e una politica mai vista fino a oggi, promossa dal capo dello stato e attuata da un banchiere di grido, a parte stagioni eccezionali interrotte dalla irruzione della demagogia e del giustizialismo della magistratura militante e dei suoi mandanti esterni.       

 

Chiunque vinca avrà molto da fare. Chiunque perda avrà moltissimo da fare. Dopo Draghi, senza Draghi, oltre Draghi c’è da ricostruire un profilo decente della politica italiana. Una combinazione di decisionismo riformatore e di dialogo costituzionale per la quale a oggi non sembrano attrezzate le coalizioni e i cosiddetti poli che si contendono i voti. Ma resta questa idea che sia possibile un’azione non stupidamente e bestialmente autarchica, che sia nelle cose il legame di interdipendenza con alleati e partner, che sia necessario un surrogato istituzionale dell’unità nazionale tradita. Draghi va dimenticato perché indimenticabile e irripetibile. Il draghismo va considerato per quello che è rapidamente diventato, un alibi e una gnagnera, un chiacchiericcio molesto. Quelli che vengono provino a fare meglio, e quelli che si opporranno si facciano venire un’idea solida su come competere ed emulare.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.