Enrico Letta ha ripetuto più volte che avrebbe guardato tutti dritto negli occhi per mettere in lista chi avesse avuto “gli occhi di tigre” (LaPresse) 

Il Foglio del weekend

Le liste elettorali della vendetta

Francesco Cundari

Il violento casting per il Parlamento, tra occhi di tigre e gladiatori. Così i leader politici serrano le file dei fedelissimi

Vista dall’esterno potrebbe sembrare persino una noiosa formalità, una procedura burocratica come tante altre, una liturgia che si ripete sempre uguale a se stessa a ogni tornata elettorale (e in fondo, almeno fino a quando c’erano ancora partiti degni di questo nome, a ogni congresso). Ma è l’esatto contrario.
La compilazione delle liste è il momento della verità in cui vengono meno tutti gli infingimenti e tutte le formule rituali, è la notte in cui si abbandona il latino per il vernacolo, in cui il sacerdote si toglie i paramenti, in cui ciascuno esce dal personaggio in cui rientrerà all’alba – davanti ai taccuini dei giornalisti, alle telecamere o al suo profilo Facebook – per gettarsi nella mischia e combattere a mani nude. E’ il momento in cui la scuola di danza chiude la porta a chiave e si trasforma in fight club.

 

Elettorale o congressuale che sia, la lista è sempre – anche – una lista nera. La differenza tra i sommersi e i salvati può essere esile come un sondaggio, sfumata e ondeggiante come il confine tra due circoscrizioni adiacenti, ma è sempre decisiva. Di sicuro la lista, ogni lista, proprio come la rivoluzione, non è mai un pranzo di gala, ma sempre un atto di violenza.

 

 Nel Pci si subiva l’umiliazione del proprio nome prima inserito dalla commissione elettorale e poi, nell’urna congressuale, furiosamente cancellato 

 

Nei congressi del Partito comunista gli organismi dirigenti venivano votati su liste precompilate, sulle quali i delegati potevano intervenire con cancellature e sostituzioni, come ben sapevano gli esponenti anche più autorevoli di quelle “tendenze” (la parola “correnti” nel Pci era bandita) che si azzardavano a prendere posizioni eterodosse, e dovevano subire l’umiliazione di vedere il proprio nome dapprima inserito nel comitato centrale dalla commissione elettorale e poi, nel segreto dell’urna congressuale, furiosamente cancellato da decine e decine di cari compagni.

 

Depositari di una tradizione meno violenta e più duttile nella gestione del potere, o perlomeno del confronto interno, i democristiani un trattamento simile lo riservavano solo ai massimi dirigenti, e quando si trattava di scegliere la prima carica dello stato. Laddove schiere di franchi tiratori del loro stesso partito, coperti dall’anonimato, infilzavano senza pietà i nomi più illustri e i candidati più autorevoli, lasciandoli agonizzare davanti all’intero paese per giorni e giorni, in quello che Giovanni Leone (vittima prima, ma poi anche artefice e beneficiario di quest’arte cruenta) avrebbe ricordato come “un supplizio cinese”.

 

La corsa per il Quirinale si svolge però, salvo eccezioni, una volta ogni sette anni, e coinvolge direttamente solo un esiguo numero di persone. Le liste elettorali per le politiche sono un’altra cosa. Specialmente da quando non ci sono più le preferenze, e i collegi uninominali, quando la legge elettorale li prevede, non offrono nella maggior parte dei casi grandi sorprese, concentrando così nelle mani del leader un potere di nomina praticamente assoluto, esercitato con pochissimi fidati uomini della sua cerchia più ristretta.

 

Naturalmente è un potere che ognuno gestisce, assapora (sempre) o soffre (ipotesi di scuola) a modo suo, secondo la propria storia personale e il proprio carattere. C’è l’arrogante e il complessato, il violento e il mellifluo, il sadico e il passivo-aggressivo. C’è chi il giorno dopo si vanta con gli amici (“hai visto come li ho fregati?”) e chi il giorno prima prende per il culo i nemici (“ho un peso sul cuore per i no che ho dovuto dire”). C’è quello che invoca la rottamazione degli avversari interni persino nei comizi e quello che manda avanti il suo braccio destro a dire che possono stare tranquilli, che il loro posto in lista è sicuro, per poi depennarli a pochi minuti dal voto della direzione, al modo in cui si uccidono certi animali: accarezzandoli affettuosamente con una mano prima di accoltellarli con l’altra.

 

Proliferano formazioni  unipersonali: “Centristi per l’Europa” (per gli amici: Pier Ferdinando Casini), o “Emilia Romagna Coraggiosa” (Elly Schlein)

 

D’altra parte, è difficile trovare criteri stabili su cui fare affidamento nella politica di oggi. Un tempo i partiti si scindevano nei congressi e si riunificavano in Parlamento, oggi nascono in Parlamento e si riunificano su zoom. Le liste del Pd, compilate da Renzi nel 2018, hanno fornito i parlamentari di Italia viva nel 2019. I parlamentari di Articolo Uno, nato nel 2017 da una scissione del Pd, sono rientrati alla chetichella nelle liste del partito da cui si erano separati, attraverso la web-sceneggiata delle “agorà democratiche”, da cui è nata la meta-sceneggiata della lista “Pd-Italia democratica e progressista”, lista formata da Pd, Articolo Uno e da una serie di formazioni locali o addirittura uni-personali, come “Centristi per l’Europa” (per gli amici: Pier Ferdinando Casini), o “Emilia Romagna Coraggiosa” (Elly Schlein), in un gioco di sdoppiamenti e riaccoppiamenti che sarà stato pure, come ha dichiarato Schlein, un modo per dimostrarsi “i più duri avversari della paura di futuro che sta colpendo larghe fasce della società”, ma che a un occhio forse troppo smaliziato ricorda soprattutto il gioco delle tre carte. Ma nemmeno questa, alla fine, è una gran novità.

 

Le liste, come testimoniano i titoli di giornale dell’indomani, tutte le volte, sono sempre una mattanza. E’ il momento in cui l’enorme quantità di violenza accumulata lungo una legislatura, tenuta a freno per due, tre, cinque anni di trappole e trabocchetti, “dopo di lei”, “non c’è di che” e “si figuri”, si sprigiona all’improvviso, tutta insieme. 

 

Gli sconfitti li riconosci subito, perché sono quelli che fanno più fatica a rientrare nella parte, a nascondere i segni della lotta cui hanno partecipato, a sorridere verso il pubblico e a dirsi onorati di poter servire la propria comunità in campagna elettorale, sia pure in un collegio difficile, o peggio, per quelli messi proprio fuori da tutto, immensamente grati per il privilegio di averlo potuto fare fino a quel momento, e più che mai decisi a dare il proprio contributo, da semplici militanti, nella difficile battaglia.

   

Il copione dello sconfitto prevede due caratteri fissi: il signore e il risentito. Quello che dichiara finito il tempo delle discussioni, e quello che sbatte la porta

  

Il copione dello sconfitto prevede poche varianti, alla fin fine riducibili a due caratteri fissi: il signore e il risentito. Quello che dichiara finito il tempo delle discussioni interne e giunto il momento di stringersi tutti insieme per battere l’avversario, mentre nasconde in tasca il fazzoletto in cui ha raccolto i denti che mancano al suo sorriso, dopo averci tamponato il sangue che ancora gli esce dal naso, e quello che sbatte la porta.

 

Il primo tipo è ben rappresentato da Enzo Amendola, la cui candidatura in un collegio perdente aveva stupito tutti, trattandosi del sottosegretario con delega agli Affari europei (e capo dello stesso dicastero nel governo precedente) che ha seguito l’intera partita del Pnrr. A lui Letta ha rivolto subito un accorato appello via agenzia, parlando di  “situazioni non volute e davvero spiacevoli come quella che a Enzo Amendola, una delle personalità più rilevanti della nostra politica europea nonché di quella del governo Draghi, assegna una prospettiva di candidatura particolarmente difficile e impegnativa”. Situazioni che sarebbero state causate dalla legge elettorale e di cui il segretario del Pd si è detto “politicamente e personalmente davvero dispiaciuto”. Poco dopo è arrivato il tweet di Amendola: “Per cultura politica e personale sono sempre convinto che il noi venga prima dell’io. La mia è una candidatura di servizio…”.

 

Il modello di chi sbatte la porta, invece, è ben rappresentato da Luca Lotti, che ha particolarmente colpito i giornali anche perché Lotti era il braccio destro di Matteo Renzi, cioè uno dei pochissimi che avevano effettivamente gestito la partita delle liste al giro precedente, quello in cui, per fare solo un esempio, era stato fatto fuori Marco Meloni, il braccio destro di Letta, cioè uno dei pochissimi che hanno effettivamente gestito la partita delle liste oggi. Questo il distaccato giudizio dell’ormai ex deputato: “Ha vinto il rancore e l’odio, oltre che la vendetta”.

 

Ma il mondo come sempre non è tutto bianco o nero, e tra chi fa il signore e chi il risentito, c’è spesso anche chi sa oscillare con sapienza, dosando attentamente fair play (per non tagliarsi i ponti alle spalle) e recriminazioni (per aizzare i propri sostenitori), nella speranza di rientrare all’ultimo minuto. 

 

Più raramente, per stanchezza o per ingenuità, per rabbia o per sfinimento, capita che qualcuno finisca invece per recitare entrambe le parti, in rapida e irrazionale successione. Capita, insomma, quello che in questi giorni è capitato a Monica Cirinnà, paladina dei diritti civili nel Partito democratico, anche per la legge sulle unioni civili che porta il suo nome. 

 

“Sono stata colpita in prima persona, perché ero certa di poter dare il mio contributo, un contributo importante, sul proporzionale Roma 1”, dice in conferenza stampa. E ancora, mostrando la guancia: “Ho ricevuto uno schiaffo, sì, ecco: le cinque dita”. Ma è un’altra la dichiarazione, pronunciata a caldo, cui resterà inchiodata, a proposito del collegio assegnatole: “Sono territori inidonei ai miei temi”. Una dichiarazione che probabilmente non renderà più agevole l’impresa che il giorno dopo decide comunque di accettare, twittando: “Accetto collegio difficile, come gladiatore. Non è ripensamento per interesse, è amore per la comunità. Tiro fuori gli occhi di tigre, ma lo faccio solo per loro. Combattere come l’ultimo dei gladiatori è l’unico modo per non sottrarmi alla battaglia”. 
Un tweet che è un po’ la summa di tutte le formule e gli stilemi tipici di questo strano rito, una sorta di violentissima recita di Natale, come emerge anche dalla scelta delle immagini e delle citazioni. Anche se quella sugli “occhi di tigre”, va detto, è colpa di Enrico Letta. Il segretario del Pd aveva infatti ripetuto più volte, sin da diversi mesi prima, che avrebbe guardato tutti dritto negli occhi e non avrebbe messo in lista chi non avesse avuto “gli occhi di tigre”. Squarciando in un attimo, inconsapevolmente, tanta inutile retorica sulle scelte condivise e democratiche, sulle “richieste dei territori”, sulla discussione franca e leale. D’altra parte, che le cose non sarebbero finite bene, che non potevano finir bene, i dirigenti del Pd avrebbero dovuto capirlo proprio dalla scelta incongrua della citazione, che rivelava un’aspirazione del tutto sproporzionata alle proprie forze, destinata inevitabilmente a tradursi, prima o poi, in quelli che nel calcio si chiamano falli di frustrazione. 

  

Sentir parlare di “occhi di tigre” fa  l’effetto di Fassino quando rivendicava di essere pieno di passioni e dichiarava: “Mi piacciono molto i musical”

 

Eppure, bisogna dire anche questo, per quanto la compilazione delle liste assomigli molto a un casting – un casting, evidentemente, diretto e deciso dal segretario, senza tanti complimenti – non è raro che proprio il leader si riveli il più refrattario alle sue regole basilari. Enrico Letta nei panni di Rocky Balboa (o se preferite, per i filologi, di Apollo Creed, cioè il pugile che nel film pronunciava la battuta sugli “occhi della tigre” rivolgendosi a Rocky) è tanto credibile quanto lo sarebbe Sylvester Stallone nei panni di Harry Potter. E lo stesso vale, ovviamente, per Monica Cirinnà e per tutti gli altri candidati del Pd, che avrebbero tante qualità da vantare e tanti modi per presentarsi credibilmente davanti agli elettori, ma non quello. Sentirli giurare di avere “gli occhi di tigre” – o di prepararsi a combattere come un gladiatore – fa un po’ l’effetto che faceva Piero Fassino quando, da segretario dei Ds, si lamentava per l’immagine di uomo grigio, freddo e triste, che a suo giudizio la stampa gli aveva immeritatamente affibbiato, rivendicando di essere al contrario un uomo pieno di passioni. E puntualmente, a riprova della tesi, dichiarava: “Mi piacciono molto i musical”.

 

In effetti nessuna parola, in politica, è usata tanto a sproposito, è tanto travisata e fraintesa, quanto “credibilità”. Si tende a pensare, o a dire fingendo di pensare, finendo però per crederci davvero, che un politico o un candidato credibile sia semplicemente chi dice quello che fa e fa quello che dice. Se così fosse, però, sarebbero eletti solo politici serissimi e responsabili, e non si troverebbe un solo cialtrone in tutto il Parlamento. 

 

Sarebbe bello, certo, ma non è la verità. Quando si parla della credibilità di un candidato, che lo si sappia o no, si parla di un’altra cosa. Si sta parlando di letteratura, cinema, fiction. Il punto non è la corrispondenza con la realtà, semmai il contrario. Il punto è la sospensione d’incredulità. E’ il motivo per cui Superman può essere considerato un personaggio credibile, anche se nessuno, uscito dal cinema, prenderebbe mai sul serio la storia di un tizio che se ne va in giro svolazzando in tutina aderente e mantello. Il punto è che anche nella finzione letteraria, cinematografica e politica, ci sono dei limiti invalicabili: Christopher Reeve era credibile come Superman, ma non lo sarebbe stato come Fantozzi. Lo stesso, o per meglio dire l’inverso, vale per Paolo Villaggio. Eppure in politica, chissà perché, è pieno di attori con l’aspetto di Harry Potter che vogliono recitare la parte di Rambo, e finiscono inevitabilmente per fare l’effetto di Oscar Pettinari: il protagonista di “Troppo forte”, quello che si presentava ai casting per ruoli da supercattivo, ma aveva pur sempre il volto di Carlo Verdone.

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