Vittorio Emanuele Parsi (LaPresse)

Evitare l'iceberg

Serve un nuovo people capitalism. La ricetta di Parsi per non fare come il Titanic

Maurizio Stefanini

“La sfida è riformare il capitalismo occidentale, fondato apparentemente sul merito, ma in realtà sempre più propenso a garantire i privilegi di nascita", scrive nel suo nuvolo libro il professore, prospettando un modello in cui "il reddito proveniente da capitale e lavoro sia più equamente distribuito"

Torniamo a Roosevelt e Churchill: in estrema sintesi, è la ricetta di Vittorio Emanuele Parsi per riportare sulla giusta rotta le democrazie. La teoria è esposta in “Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale” (Il Mulino, pp. 360, euro 22,80). Anche il pubblico dei talk-show televisivi conosce Parsi come professore ordinario di Relazioni internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni internazionali, ma da queste pagine apprendiamo che è anche capitano di fregata di stato maggiore della riserva, e che l’origine di questo saggio è in una conferenza tenuta presso l’Istituto di Studi militari marittimi di Venezia nella primavera del 2017, e poi pubblicata in seconda versione sulla Rivista marittima.

 

E infatti il testo è denso di metafore marittime, a partire da un attacco in cui si cita il dialogo tra il comandante e il mozzo del Titanic immaginato da Francesco De Gregori. E’ un libro, peraltro, pieno di provocazioni, ma non gratuite. A partire da quella di contrapporre il liberalismo al neoliberalismo. “La mia tesi è che a partire dagli anni Ottanta l’ordine internazionale liberale sia stato progressivamente sostituito dall’ordine globale neoliberale”. Quello liberale cercava di conciliare le masse alla democrazia attraverso una mediazione tra mercato e welfare,  e cercava di tenere assieme “nel modo più armonioso possibile la sovranità statale (nella sua versione liberaldemocratica) e l’economia di mercato (che comporta il libero scambio a livello internazionale)”. 

 

L’ordine globale neoliberale, che è andato sostituendosi all’ordine internazionale liberale a partire dalla fine della Guerra Fredda, ha invece stabilito una idolatria del mercato che secondo Parsi ha destabilizzato l’equilibrio tra valori e interessi e tra democrazia e mercato stesso. Da una parte, dunque, sono aumentate diseguaglianze, incertezze e povertà, fornendo la base per la crescita di populismo e sovranismo – peraltro con risposte sbagliate che hanno aggravato il problema, come dimostra il fenomeno Trump. Dall’altra, si è aperto lo spazio per un ritorno massiccio dell’autoritarismo, la cui forma più compiuta è in quello che Parsi definisce il “capitalismo di concessione cinese”.  

 

Come il Titanic, il mondo è stato portato su una rotta diversa e più pericolosa di quella segnata dall’incontro e reciproco bilanciamento di democrazia e mercato, spinto verso un minaccioso iceberg a quattro facce. La prima è il declino di quella leadership americana che era stata la garante dell’ordine internazionale liberale, e l’emergere delle potenze autoritarie di Russia e Cina. La seconda è la polverizzazione della minaccia legata al terrorismo. La terza è la deriva revisionista della presidenza Trump.  La quarta è l’affaticamento delle democrazie, ormai strette tra populismo e tecnocrazia. 

Secondo Parsi, “la sfida è riformare il capitalismo occidentale, fondato apparentemente sul merito, ma in realtà sempre più propenso a garantire i privilegi di nascita. Non nella direzione di quel capitalismo di concessione che la Cina propone al mondo, ma andando verso un nuovo people capitalism in cui il reddito proveniente da entrambi i fattori di produzione – capitale e lavoro – sia più equamente distribuito. Cioè un capitalismo simile al capitalismo socialdemocratico nella preoccupazione verso la disuguaglianza, ma che aspiri a un tipo di uguaglianza diverso: invece di concentrarsi sulla redistribuzione del reddito, questo modello punterà a una maggiore uguaglianza dal punto di vista delle risorse, non solo finanziarie, ma anche in termini di abilità”.
Concepito prima della pandemia, il saggio ha fatto in tempo a includerla nell’analisi. E’ invece uscito prima della guerra in Ucraina, ma un commento sull’annessione della Crimea vale anche per questa invasione.  “Dovrebbe essere ovvio che quanto la Russia ha fatto in Crimea è inaccettabile e mina oggettivamente uno dei princìpi cardine dell’ordine liberale. In realtà destabilizza le regole fondamentali di qualunque ordine, né più né meno di quanto accadde nel XVIII secolo quando Federico II di Prussia strappò la Slesia a Maria Teresa d’Austria perché ‘gli serviva il ferro delle sue miniere’”. “Esiste in Italia un partito filorusso, diffusissimo sui mezzi di informazione, che tende a giustificare tutto ciò che la Russia di Putin va facendo nel nome della necessità. Al di là della consueta fascinazione italica per l’uomo forte – niente di più che l’ennesima declinazione dell’ammirazione che troppo spesso gli italiani provano per il potere, pari solo al disprezzo che nutrono per l’autorità – questo giustificazionismo tende a vestire i panni di un preteso realismo, quando è solo una manifestazione di cinismo esibita per di più sulla pelle altrui”.

 

Di più su questi argomenti: