catastrofismo no, grazie
Il peccato della destra anti Draghi. Come uscirne? Sfida tra nomi, ritorni e molta cipria
Osservare con curiosità il modo in cui le destre ultra populiste cercheranno di mostrarsi non incompatibili con la stagione dei doveri è un esercizio che merita di essere fatto, sapendo distinguere tra sostanza e forma
E’ possibile che finirà presto tutto a rotoli, che i mercati impazziranno, che le Borse crolleranno, che gli investitori fuggiranno, che lo spread risalirà, che il numero ridotto dei parlamentari offra poteri molto robusti a chi vincerà le prossime elezioni ed è possibile inoltre che la fine del governo Draghi coincida inesorabilmente con la fine non solo di una formidabile stagione politica ma anche con la fine del mondo. Con l’apocalisse economica, con il crollo del nostro sistema finanziario. E’ possibile che tutto questo accada inesorabilmente, ma è anche possibile che i piccoli segnali registrati negli ultimi giorni nel nostro paese, con uno spread in aumento ma non troppo, una Borsa in difficoltà ma non troppo, i rendimenti dei Btp in difficoltà ma non eccessivamente, indichino uno scenario diverso per il futuro del nostro paese, simile a quello che abbiamo provato a descrivere su queste pagine nelle ultime settimane.
Uno scenario all’interno del quale i binari dell’Italia, in mezzo a mille difficoltà, mille delusioni, mille disavventure, si presentano molto più solidi rispetto a quello che si potrebbe credere e uno scenario all’interno del quale la traiettoria dei partiti populisti, quelli di destra, quelli che hanno dato il colpo di grazia al governo Draghi, potrebbe risentire in modo brusco dei vincoli imposti dalla stagione dei doveri. La stagione dei vincoli, degli impegni, dei contratti con l’Europa, degli obblighi derivati dalla necessità di governare un paese con uno dei debiti pubblici più alti del mondo si presenta, di fronte agli occhi dei populisti di destra, come una sfida con due possibili vie di fuga. La prima strada è quella di trasformare i vincoli in un nemico da combattere, da demolire, da annientare, per riportare l’Italia a una stagione vicina cronologicamente al 4 marzo del 2018. La seconda strada è quella di affiancare al proprio populismo una patina di moderazione, una incipriata, necessaria per rendere compatibile il proprio progetto politico con la stagione dei doveri.
La cipria copre ciò che esiste, e che si può solo al massimo nascondere, ma il tentativo di passare un tocco di cerone sul proprio estremismo potrebbe diventare il filo conduttore della campagna di destra. L’accusa ai Salvini, ai Berlusconi e alle Meloni in fondo è evidente, è drastica, è violenta ed è anche oggettiva: con il vostro impegno è caduto un governo guidato dalla più autorevole delle personalità del nostro paese e rimarginare questa ferita sarà tutto tranne che una missione semplice. Dunque, che fare? E da dove cominciare con la cipria? Il centrodestra di governo, per così dire, tenta di affrontare questo tema nel modo più goffo possibile, sostenendo cioè che sul luogo del delitto politico loro non c’erano (è stato Conte!) e se c’erano non hanno visto nulla (“ma noi volevamo ancora Draghi”). Il centrodestra non di governo, che sembra essere quello più lanciato verso il prossimo governo, il centrodestra cioè di Giorgia Meloni, sa che il problema dello stigma esiste, sa che il suo essere stato all’opposizione del governo Draghi è un peccato che dovrà essere scontato. Ma sa anche che di fronte ai passi indietro che la Lega potrebbe muovere nei prossimi mesi per far dimenticare agli elettori di aver governato in tre degli ultimi quattro anni e mezzo ha di fronte a sé un’opportunità gigantesca: scaricare lo stigma della destra impresentabile su Matteo Salvini e provare a indossare invece il profilo di una destra più europeista rispetto a quella incarnata dalla Lega modello B&B (Borghi e Bagnai).
E così Meloni fa sapere che lei in fondo, in questi mesi, ha avuto con Draghi un rapporto persino più cordiale rispetto a quello di Draghi con Salvini, e da Palazzo Chigi lo confermano. E così Meloni fa sapere che lei in fondo, in questi mesi, ha fatto quello che Salvini ha scelto di non fare, ovvero costruire rapporti cordiali con alcuni dei collaboratori del premier, in primis il professor Francesco Giavazzi, e da Palazzo Chigi lo confermano. E così Meloni nel suo team informale di economisti ha sì il professor Giulio Tremonti, anche se in verità recentemente Meloni ad alcuni amici di Mario Draghi ha detto che mai e poi mai avrà un ruolo centrale in un governo di centrodestra a guida Fratelli d’Italia, perché Meloni in un Consiglio dei ministri con Tremonti ci è stata, ma anche con profili diversi, con altre storie e altre caratteristiche, come Maurizio Sacconi (welfare), Maurizio Leo (fisco), Massimiliano Atelli (Ambiente), Luca Ricolfi (lavoro), Franco Frattini (politiche europee).
E così Meloni, pur avendo spinto il centrodestra a fare quello che ha fatto con Draghi (“Giorgia, hai visto, mi hai convinto”, ha detto Silvio Berlusconi al telefono alla leader di Fratelli d’Italia mercoledì pomeriggio, mentre Meloni si trovava a Roma a Piazza Vittorio), fa sapere che nonostante i molti imprenditori che si sono schierati a favore di Draghi durante i giorni della crisi, imprenditori preoccupati più da quello che avrebbe fatto Salvini che da quello che avrebbe fatto Meloni, le sue interlocuzioni con l’establishment italiano sono solide, estese, trasversali e vanno dalla Confindustria di Carlo Bonomi agli editori del gruppo Gedi passando per i vertici di Mediobanca e quelli di Generali. E così Meloni, che nei giorni del patatrac al Senato aveva in agenda pensate un po’ un incontro a Palazzo Chigi proprio con Mario Draghi, fa sapere che nel suo fantagoverno non ci sono sogni alla Paolo Savona (capito Matteo?) ma ci sono sogni di altro tipo. Ci sono sogni forse impossibili come quello di avere nel suo eventuale governo lo stimato Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, e ci sono idee forse irrealizzabili che però Meloni tiene a far sapere in giro attraverso i suoi collaboratori più stretti: fare del governo Draghi, nella sua essenza, non un universo da dimenticare ma un benchmark da cui ripartire.
Credere nella conversione di Meloni, nella sua volontà di presentarsi in campagna elettorale come una leader anti populista, nonostante la sua sincera adesione all’atlantismo e il suo apprezzabile sostegno alla resistenza ucraina, sarebbe ingenuo e persino ridicolo. Ma osservare con curiosità il modo in cui le destre ultra populiste, ma complottiste più che fasciste, cercheranno di mostrarsi non incompatibili con la stagione dei doveri è un esercizio che merita di essere fatto. Con la consapevolezza di saper distinguere ciò che rappresenta il volto (la sostanza) e ciò che rappresenta la maschera (la forma) e con la consapevolezza però che i formidabili vincoli entro i quali si muove l’Italia (impegni con l’Europa in primis) sono pronti a tenere ancora una volta il paese al riparo dalle sue irresponsabilità. Anti populismo sì, catastrofismo no, grazie.
L'editoriale del direttore