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Tutte le strade che portano al bis di Draghi

Claudio Cerasa

L’operazione fiducia e la tonnara. Dieci indizi per capire dove finirà il pendolo del presidente del Consiglio: la svolta c’è

C’è chi la chiama amabilmente operazione ricomposizione. C’è chi la chiama diplomaticamente operazione vasi di coccio. C’è chi la chiama maliziosamente operazione tonnara. C’è chi la chiama più pomposamente operazione responsabilità. Ma al netto del nome, e della definizione, la sostanza, a poche ore dal passaggio alle Camere del presidente del Consiglio Mario Draghi, presidente dimissionario in formato non irrevocabile, è questa: quello che giovedì sera è parso a molti come un passo non reversibile, il passo indietro di Draghi, mercoledì pomeriggio potrebbe diventare inesorabilmente un passo reversibile.

  

Non è ancora una certezza, naturalmente, ma la consapevolezza che vi sono diversi indizi che potrebbero portare lì, al bis di Draghi, suggerisce di unire i puntini per provare a orientarsi nelle prossime ore. Gli indizi raccolti sul terreno sono almeno dieci.

 

Il primo: Draghi ha scelto di dimettersi senza aggiungere l’aggettivo “irrevocabili” alle sue dimissioni, ha accettato di dover riferire alle Camere mercoledì prossimo e ha considerato dunque come possibile l’opzione di misurare il suo consenso in Aula con un voto di fiducia.

 

Il voto di fiducia, indizio numero due, è stato confermato ieri dalle riunioni dei capigruppo di Camera e Senato e dunque il discorso che doveva essere di semplici comunicazioni relative alle proprie dimissioni ha tutto l’aspetto di trasformarsi in un discorso destinato a indicare quali sono, per Draghi, le condizioni per andare avanti.

 

Il terzo indizio è legato a un piccolo ma non irrilevante dettaglio parlamentare: la possibile ulteriore scissione del M5s. Ieri pomeriggio, il capogruppo alla Camera del M5s, Davide Crippa, che da giorni sta lavorando per tirar fuori dal M5s una ventina di deputati per confermare la fiducia al governo Draghi, cosa che dovrebbe mettere nero su bianco oggi, ha tentato di portare mercoledì il presidente del Consiglio prima alla Camera, dove la scissione ci sarà, e solo dopo al Senato, dove la scissione del M5s se ci sarà avrà dimensioni più piccole rispetto a quella della Camera, ma il presidente Roberto Fico, del M5s, ha bocciato la richiesta di Crippa e dunque Draghi parlerà prima al Senato e poi alla Camera. Prenderà la fiducia in entrambe le circostanze ma la presenza di una scissione ulteriore all’interno del M5s è un passaggio necessario per giustificare un eventuale bis senza il “partito di Conte” (come lo chiama ormai da giorni il ministro Luigi Di Maio, come a voler dire che il Movimento 5 stelle non c’è più: c’è solo un partito personale).

 

Il quarto indizio utile a capire da che parte finirà il pendolo di Draghi è legato a un appello ulteriore che potrebbe manifestarsi in queste ore: la richiesta rivolta a Draghi da diversi governatori di regione, anche dai governatori della Lega e di Forza Italia, di continuare la sua azione di governo. Un appello che chi conosce bene Draghi considera “decisivo” nel  permettere di misurare il consenso reale che esiste all’interno dei partiti per sostenere l’azione dell’ex governatore della Bce e che (indizio numero cinque) permetterebbe al presidente del Consiglio di avere una certezza: la presenza di un appello per il bis formulato da governatori di regione sostenuti da tutto il centrodestra (Luca Zaia, Attilio Fontana, Massimiliano Fedriga) sommata alla presenza di un appello firmato da sindaci di grandi città sostenuti dal centrodestra (dal sindaco di Genova Marco Bucci fino al sindaco di Arezzo Alessandro Ghinelli passando per il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, il sindaco di Asti Maurizio Rasero, il sindaco di Lucca Mario Pardini, il sindaco di Barletta Cosimo Cannito) potrebbe permettere a Draghi di allontanare l’idea che il suo bis sia frutto di una semplice manovra di palazzo.

 

E qui arriviamo all’indizio numero sei, che riguarda il centrodestra: Salvini e Berlusconi, con i propri partiti, avrebbero avuto, in questi giorni, l’occasione di scaricare sul M5s la responsabilità della fine del governo e di andare al voto spaccando il fronte progressista e andandosi a cuccare buona parte dei collegi previsti dall’attuale legge elettorale, e invece almeno fino a oggi i leader di Lega e Forza Italia si sono limitati a dire di essere “pronti ad andare al voto”, che è cosa ben diversa dal dire “vogliamo andare al voto”. Dunque, il centrodestra, dovendo scegliere se andare al voto e fare un regalo a Giorgia Meloni o restare al governo e dare un’altra chance a questo governo, anche a costo di essere attaccati quotidianamente dal proprio teorico alleato, il partito di Meloni, hanno scelto la seconda strada e hanno deciso con saggezza di evitare una tentazione che il proprio elettorato non avrebbe probabilmente capito: essere percepiti come i nemici di Draghi.

 

L’indizio numero sette, invece, ci porta a considerare la posizione del Partito democratico, passata dall’essere la posizione di chi, fino a dieci giorni fa, considerava impossibile andare avanti con il governo senza il M5s, se il M5s esce dal governo si va al voto senza allearci con il M5s, a chi, oggi, considera un governo senza Conte, ma con i ministri attuali del M5s e qualche cinque stelle in uscita dal M5s, come una possibilità più che reale.

 

L’indizio numero otto e il nove ci dicono poi che nella scelta di Draghi ci saranno altri due elementi importanti che peseranno. Da un lato, la necessità, più volte ripetuta dal Quirinale in questi giorni, di non lasciare in mezzo al guado, come si dice, i progetti del Pnrr, e gli uffici del Colle tra sabato e domenica hanno trasmesso una robusta documentazione a Palazzo Chigi per evidenziare i rischi anche economici che l’Italia avrebbe corso in questi mesi con un governo a metà. Dall’altro lato, la consapevolezza da parte del presidente del Consiglio di non poter far seguire le sue dimissioni a una sua uscita sostanziale dal governo con il rischio, in caso di voto anticipato, di dover guidare almeno fino al termine di quest’anno un governo per gli affari correnti privo di poteri per governare in una fase in cui un esecutivo tutto può fare tranne che gestire l’ordinario (dopo le elezioni, il governo resta quello in carica nella passata legislatura fino al giuramento del nuovo governo).

 

Il decimo indizio riguarda un effetto chissà quanto involontario generato in questi giorni dai molti appelli maturati a favore del proseguio dell’azione di governo del presidente Draghi: gli appelli, delle cancellerie internazionali, del mondo cattolico, del mondo produttivo, del partito del pil, erano rivolti alle forze politiche, alla loro responsabilità, ma erano rivolti anche al presidente del Consiglio. Tema: caro presidente Draghi, sii responsabile, non lasciare incompiuta l’azione del governo e ripensaci.

 

Dieci indizi e un problema: di fronte a tutto questo Draghi può davvero permettersi il lusso di non ripensarci? Tutte le strade che oggi portano al bis sono queste. E sono strade che indicano che l’operazione tonnara, l’operazione ricomposizione, l’operazione  vasi di coccio, è qualcosa in più che una semplice ipotesi dell’irrealtà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.