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Oltre gli Uber files. L'indignato collettivo è il miglior alleato dello status quo

Claudio Cerasa

Scandalizzarsi per il lobbismo dell'azienda americana e chiudere gli occhi di fronte ai ricatti dei tassisti.

L’ultima incredibile frontiera dell’indignato collettivo è una società americana che sceglie di fare tutto il necessario possibile per promuovere il suo prodotto in un mercato chiuso. L’ultima incredibile frontiera dell’indignato collettivo è una società americana che, per provare a competere con i suoi avversari, cerca un modo per spiegare che avere una barriera penalizzante all’ingresso è un problema non solo per l’azienda che vuole competere ma anche per un paese che vuole innovare. L’ultima incredibile frontiera dell’indignato collettivo è un scandalo senza scandali al centro del quale vi è una famosa società americana, di nome Uber, accusata di aver adottato forme di pressioni “molto aggressive” per far valere le sue ragioni nel mondo della politica, arrivando persino a costruire, attraverso attività di lobbying, rapporti molto stretti con alcuni politici.

 

L’indignato collettivo ha trovato modo di alimentare il suo senso di esasperazione leggendo i resoconti fatti da alcuni giornali sul caso degli “Uber files”, su circa 124 mila documenti pubblicati due giorni fa da un gruppo di quotidiani capitanato dal Guardian. Le accuse sono tremende, schiaccianti: Uber, tra il 2013 e il 2017 avrebbe cercato, con metodi spregiudicati, di trovare fra i politici sensibili al tema dell’apertura dei mercati (da Macron a Biden arrivando fino a Renzi) degli alleati per provare a rendere i mercati meno ostili con le innovazioni modello Uber. Qualcosa di inappropriato? Certo, assumere lobbisti russi legati agli oligarchi non è il massimo. Qualcosa di illegale? Non sembra. Qualcosa di illecito? Non pare. Il vero scandalo nella storia di Uber, azienda che offre un servizio alternativo a quello dei taxi mettendo in collegamento passeggeri e autisti interessati a viaggiare su auto anche sprovviste di licenza, è lo scandalo di fronte al quale si trovano spesso le società che sono portatrici di trasformazioni violente: l’incapacità di saper utilizzare l’innovazione come una leva utile per offrire ai cittadini servizi migliori a un costo più basso. Il vero scandalo, nella storia di Uber, in questi anni non è stato il tentativo di Uber di aprire il mercato, ma è stato il tentativo miope da parte dei governi europei di saper rispondere in modo ambizioso al vero tema posto da un disruptor come Uber: una maggiore concorrenza, sul trasporto pubblico locale, è un danno per i cittadini, per le istituzioni, per i paesi, o è solo un danno per chi difende il proprio status quo, e dunque per i tassisti?

 

Proiettata in un paese come l’Italia, poi, l’indignazione collettiva per il tentativo di aprire come una scatoletta di tonno il non concorrenziale mercato del trasporto pubblico non di linea fa semplicemente sorridere, purtroppo. Uber, in Italia, è stata prima combattuta per via giudiziaria (nel 2017 il servizio di base, Uber pop, è stato bloccato dal tribunale di Milano). Poi è stata combattuta dai tassisti che hanno scioperato in modo rumoroso ogni volta che la politica ha tentato di smuovere le acque (come sta succedendo in questi giorni in vista dell’approvazione del dl Concorrenza). Infine è stata osteggiata da tutta la classe politica che dovendo scegliere se legiferare per l’apertura del mercato o per il mantenimento dello status quo ha sempre scelto la seconda opzione piuttosto che la prima (la legge che regola il settore dei taxi, in Italia, è stata fatta quando ancora internet era solo una promessa: 1992). Il vero scandalo nello scandalo di Uber, salvo la presenza di scandali diversi da una semplice e purtroppo neppure tanto efficace attività di lobbying, è dunque differente rispetto a quello che è stato raccontato in questi giorni dai pappagalli dell’indignazione. E’ lo scandalo di un mondo che sceglie di farsi dettare l’agenda (e a volte anche gli emendamenti) da chi usa il ricatto, e la strategia della serrata, per combattere l’innovazione, per alimentare lo status quo e per evitare di offrire ai cittadini un servizio migliore, più efficiente e più a buon mercato. Avanti con il prossimo indignato.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.