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Noi, incapaci di ridere di questa politica disperatamente comica

Guido Vitiello

Per osservare la politica con gli occhi di uno spettatore teatrale serve una distanza che ci è stata crudelmente sottratta. La decomposizione del M5s, la bi-zona del campo largo di Letta, il cabaret del trio a destra e lo stallo alla messicana dei centristi. Non resta che Draghi

Piango per te, povero notista politico, di qualunque testata tu sia. Piango non perché il tuo lavoro sia più commiserabile di altri, incluso il mio; piango solo perché ho scoperto, ahimè, di aver disimparato a ridere – e quale sevizia, quale mutilazione può essere più orribile di quella che ci vieta di ridere di ciò che è comico? Se lo domandava, proprio con queste parole, Cesare Garboli. Era il 1986, e l’occasione era l’intervista di Repubblica a un ex terrorista dissociato, a cui veniva chiesto di illuminare la logica politica dietro l’assassinio di un magistrato: “La risposta s’inoltrava in un tale ginepraio ideologico di minuziosi ‘distinguo’ tra diverse posizioni eversive, che lo stesso intervistatore, disorientato, senza più appoggio nella realtà, finiva col prestare una certa attenzione alle farneticazioni. Era un’intervista comica: ma come riderne?”. E’ grosso modo lo stallo in cui si trovano il cronista, il commentatore o l’intervistatore davanti alla decomposizione del Movimento 5 stelle. Peggio di loro, e più degno delle nostre lacrime, forse solo il disegnatore di diagrammi e infografiche, costretto a comporre tavole parolibere futuriste per dar conto di correnti, sottocorrenti, clan, capannelli campanilistici, cordate, bocciofile e quartetti canori, magari inventando per ciascuno un’etichetta tassonomico-politica. 


So bene che qui non ci sono in ballo attentati omicidi e mitragliate alle gambe, dunque in teoria ridere non sarebbe un tabù. Non fosse che ci siamo addentrati così a fondo e così a lungo nelle foreste dell’insensatezza che abbiamo perso ogni capacità di vedere come tutto sia diventato disperatamente comico. Garboli suggeriva, come antidoto, Molière. Ma per osservare la politica con gli occhi di uno spettatore teatrale serve una distanza che ci è stata crudelmente sottratta: quel giornalista di Repubblica aveva perso l’orientamento e l’ancoraggio gravitazionale al terreno della sanità mentale nelle poche battute di un’intervista; noi invece siamo murati vivi in una sala dove è in cartellone da dieci anni una cattiva imitazione di Ionesco riscritta nel dormiveglia da un ubriaco, e abbiamo perso l’appoggio in una qualunque realtà a cui comparare il delirio, manca il termine di paragone sul quale far affiorare il nostro residuo “avvertimento del contrario”. 


Qualcuno potrà dire che era così già nella Prima Repubblica, e che i minuscoli spostamenti tattici tra le mille correnti democristiane non erano così diversi dalle distinzioni tra le varie fazioni della guerriglia, solo che si esprimevano in politichese anziché nel cosiddetto “lottarmatese”. Eppure, qualcosa si riusciva ancora a decifrare. Un po’ forse era un’illusione ottica data da quella fierezza, connaturale all’intelligenza giornalistica, che si fa un punto d’onore di mettere ordine nel caos, e di spiegare agli altri anche ciò che non si è capito; un po’ era la cortigianeria di qualche scriba ansioso di mettere in bella copia i brogliacci dei potenti (il teologo Pietro Prini trovava molto comico, per esempio, il giovane Baget Bozzo che si sforzava di individuare le ascendenze delle scuole patristiche antiche sulle diverse correnti della Dc); un po’, infine, era il segno che un barlume di metodo, in quella follia, c’era – e con esso un barlume di dignità. Non ce n’è l’ombra, invece, nello spappolamento informe dei Cinque stelle, nella bi-zona del campo largo di Letta, nel cabaret permanente del trio a destra, nello stallo alla messicana dei pistoleri centristi. Corriamo verso una parodia iperrealista del proporzionalismo, una copia di cui si sono persi gli originali (i partiti). Io confesso di non capire più nulla della politica italiana. Nulla, salvo Draghi. Ma Draghi non basta a far risaltare la comicità di tutto il resto: l’eccentrico, ormai, è lui. Venuto meno Draghi, la cura Molière non troverà più anticorpi da rinforzare. Perché ci sono solo due regni in cui ci è inflitta la sevizia di non poter ridere di ciò che è comico, due regni così agli antipodi che i loro confini finiscono per toccarsi: quello in cui tutto è serio, e quello in cui non resta più niente di serio. Per questo vorrei ridere ma piango per te, amico notista.
 

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